Ita-Alitalia: si salvano i profitti, si abbandonano i lavoratori
In queste settimane, ancora una volta, i fatti di Alitalia tornano sulle prime pagine di tutti i giornali.
La ex società di bandiera dal 2007 è stata più volte oggetto di privatizzazione, fallimento, riacquisizione da parte dello Stato italiano e di nuove privatizzazioni: all’interno di questi processi abbiamo assistito ogni volta ad una pubblicizzazione delle perdite ed una spregiudicata politica manageriale che ha sempre e solo cercato di massimizzare i profitti, a scapito dei lavoratori e della stessa esistenza della compagnia.
Dai “capitani coraggiosi” del 2009 ad Etihad nel 2018 le perdite, nonostante cospicue iniezioni di denaro pubblico (quindi dei lavoratori) e cospicui tagli al personale, diverse migliaia di lavoratori sono finiti in cassa integrazione, hanno continuato ad incrementare, dimostrando una volta di più che la gestione privata non è migliore di quella pubblica, come propagandato dal liberismo negli ultimi trent’anni.
Il grafico che riportiamo dimostra i grandi risultati conseguiti dalla privatizzazione dell’Alitalia: milioni e milioni di euro che sono stati troppo spesso coperti dalle casse dello Stato, sempre pronto ad intervenire per dare non una, ma tutte e due le mani, al capitalismo.
Con l’uscita di Etihad nel 2018 il controllo dell’Alitalia tornò, seppur sotto commissariamento, al MISE che ha erogato un prestito-ponte da 900 milioni di euro con l’intento di amministrare l’ex compagnia aerea di bandiera fino a quando non vi fosse trovato un acquirente idoneo.
Il ritorno al controllo pubblico, seppur sotto regime capitalistico, venne salutato con un tiepido entusiasmo dai sindacati e dai lavoratori, peccato però che, se sotto il Governo Conte bis, con l’emergenza sanitaria ad assorbire ogni attenzione, il dossier Alitalia è rimasto fermo, con il Governo Draghi la ripresa delle attività e la necessità di ridare fiato al mercato, mettendo una brusca fine ad ogni possibile idea di “ingerenza del pubblico”, la “bella preda” sia tornata in primo piano.
Si è pertanto arrivati alla creazione di nuova società, Ita, gestita da uno dei soliti manager taglia teste, in questo caso Alfredo Altavilla ex braccio destro di Sergio Marchionne in FCA, che ha il solo scopo di dividere da Alitalia le risorse profittevoli (aerei, parte del personale di volo, …) e predisporle per essere svendute al migliore offerente privato.
E il resto delle risorse (o dei debiti) e dei lavoratori? Presto detto: i debiti resteranno allo Stato (quindi a tutti noi) come già avvenuto per nella privatizzazione del 2008-2009 e la gran massa dei lavoratori o si dovrà accontentare di un accordo per una cassa integrazione o rimarranno per strada.
I numeri sono impietosi: degli oltre 10.000 attuali dipendenti di Alitalia solo 2.800 finirebbero nella nuova azienda, e gli altri 7.356 lavoratori? Saranno le vittime di uno “spezzatino” ovvero si conferiscono nella nuova società le attività che creano profitti (come appunto gli aerei) e si suddividono le altre attività, quelle meno remunerative o in perdita, come la manutenzione o il call center, in tante altre aziende o rami di azienda e saranno ulteriore oggetto di svendita o, peggio, chiuse mandando per strada i lavoratori.
La nuova società ha nei suoi piani industriali il parziale riassorbimento di almeno 3.000 di questi lavoratori entro il 2025 ma come ci hanno insegnato le altre crisi industriali, a partire da quella dell’ex ILVA, queste sono stime per mantenere buoni i lavoratori.
Anche la questione dei 2.800 che entreranno in Ita suscita però una legittima rabbia; a questo personale, altamente qualificato, la nuova società ha offerto un nuovo contratto, al di fuori del CCNL nazionale (a dimostrazione che Altavilla la lezione di Marchionne l’ha appresa molto bene) e con una riduzione fra il 40% e il 50% dei salari, con retribuzioni inferiori a Ryanair. Eppure già dal 2017 i salari del personale di Alitalia erano simili a quelli di altre compagnie aeree come Vueling, Iberia o Lufthansa e inferiori a quelli della British Airways, a dimostrazione che non è il tema del costo del personale il reale problema della compagnia quanto anni di strategie fallimentari in un mercato che negli ultimi anni ha conosciuto una forte concentrazione e un investimento nelle rotte intercontinentali più redditizie.
La nuova compagnia nasce già zoppa ed incapace di competere in questo mercato: con un numero di lavoratori ridotto all’osso e a basso costo, con una flotta ridotta a soli 52 aerei, sembra più pronta ad essere acquisita da qualche gigante internazionale piuttosto che a vivere autonomamente; se a questo aggiungiamo che anche alcune rotte importanti, come quella di Londra, resteranno probabilmente a Etihad, ben si comprende che il futuro di Ita non sarà rose e fiori come ha già dichiarato, in maniera cinicamente spietata, Michael O’Leary, amministratore delegato d Ryanair che vede un pronto fallimento della compagnia prima di essere venduta a Lufthansa o Air France.
In tale contesto va vista anche la forte pressione della UE sia nella creazione della nuova società sia nel tentativo di affossare definitivamente Alitalia dichiarando “illegale” il prestito ponte di 900 milioni del 2017 e riservandosi di valutare quello da 400 milioni del 2019; ovviamente non sarà la nuova società a dover restituire tale cifra, perché la renderebbe automaticamente non appetibile, ma la vecchia Alitalia. Il tutto, come sempre, a spese di oltre diecimila lavoratori.
Fin qui il ruolo dei sindacati è stato a dir poco contraddittorio: mentre i sindacati confederali si stanno limitando a chiedere un allungamento della cig fino al 2025, abdicando ancora una volta dalla possibilità di determinare le scelte industriali del Paese ma accontentandosi di gestirne le crisi, le sigle di categorie stanno conducendo una battaglia prettamente corporativista e facile oggetto di isolamento da parte padronale.
Già nel 2017 i lavoratori Alitalia dimostrarono la loro volontà di lotta, bocciando il referendum capestro che ne avrebbe decretato una riduzione cospicua del personale e delle sue condizioni, aprendo la strada al commissariamento statale.
Negli ultimi mesi i lavoratori hanno dimostrando una grande volontà di lottare fatto di scioperi, manifestazioni, presidi e blocchi stradali. Questa combattività non fornisce alibi ai vertici sindacali sul potenziale di lotta.
Abbiamo assistito alla rabbia dei lavoratori, esasperati da anni di minacce e di detrimento delle loro condizioni, con molta probabilità le prossime iniziative faranno un ulteriore salto di qualità e quantità: è un processo che va alimentato ed innalzato di livello, rimettendo sul tavolo la necessità dei comitati di lotta e di sciopero che superino le divisioni di appartenenza sindacale e che basino su dei rappresentanti eletti da tutti i lavoratori, senza distinzione di sigla sindacale di appartenenza o di mansione.
Solo un coordinamento che veda protagonisti i lavoratori, e non le burocrazie sindacali, può articolare al meglio la complessa lotta per la salvezza di Alitalia e dei posti di lavoro: non è possibile uno scollamento fra le lotte e le mobilitazioni nelle piazze e i tavoli al ministero in cui sono ammessi solo i sindacati (e spesso quelli graditi all’azienda), vanifica gli sforzi dei lavoratori e instaura una sfiducia di cui oggi i lavoratori di Alitalia non hanno bisogno.
La vertenza Alitalia può e deve coordinarsi con le altre aziende in crisi per parlare ai lavoratori di tutto il paese e lottare per un programma generale che difenda tutti i posti di lavoro.
È questo spirito che va recuperato e messo nella lotta; come scrivemmo già in quel momento la privatizzazione ha mostrato il suo fallimento, l’unica soluzione è la nazionalizzazione senza indennizzo della compagnia sotto il controllo dei lavoratori per avere un servizio adeguato e contratti di lavoro dignitosi.
La nazionalizzazione delle aziende in crisi dev’essere legata all’idea della gestione e del controllo dei lavoratori su di esse. Non deve avere nulla a che vedere con la logica perdite pubbliche, profitti privati. In Alitalia non solo non accettiamo neanche un licenziamento in più, ma pretendiamo il NO a qualsiasi privatizzazione presente e futura.