Riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario e smart working: opportunità che non sono gentilmente concesse dai padroni.
La riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario (e magari anche con un suo aumento) è una delle nostre principali rivendicazioni.
Recentemente, sotto la spinta della crisi economica, gli effetti della quale vengono moltiplicati dall’emergenza sanitaria, questa parola d’ordine è stata fatta propria da organizzazioni politiche e partiti come il PD, una parte minoritaria degli stessi industriali, nonché dai vertici sindacali, segnatamente della CGIL. Tutti costoro sono evidentemente preoccupati delle conseguenze, in termini di rabbia e radicalizzazione, che l’approfondirsi della crisi in corso, con milioni di posti di lavoro a rischio, potrà avere sulla classe lavoratrice, e cercano affannosamente un modo per arginare la tempesta che essi per primi proclamano imminente.
In questo contesto le organizzazioni sindacali più rappresentative, ed in particolare la CGIL, hanno l’illusione di evitare il conflitto, preferendo alle mobilitazioni il metodo della collaborazione di classe.
Ciò si ricava abbastanza chiaramente anche dalle dichiarazioni del segretario generale Landini e degli altri esponenti delle direzioni sindacali. Come esempio si può prendere la puntata di “Presa diretta” del 7 settembre 2020, disponibile su Rai Play:
La prima parte della trasmissione, con immagini degli ambienti di lavoro ed interviste a dirigenti, delegati e lavoratori, ha come oggetto alcune aziende modello che vengono prese a riferimento per un buon intervento sindacale. Concentrate soprattutto in Emilia, fanno parte dei settori automotive e packaging (Ducati, Lamborghini, GD…) .
Come viene abbondantemente illustrato, i lavoratori di queste aziende godono di una contrattazione integrativa molto avanzata, ad esempio con un esteso diritto alla formazione, anche su argomenti non inerenti le attività e le mansioni svolte, durante l’orario di lavoro; indennità varie, permessi per visita medica ed anche per il veterinario.
In questo tipo di imprese inoltre la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario è già una realtà: 35 ore settimanali o anche 30 sono pagate 40.
Ciò è reso possibile dagli enormi profitti che i capitalisti, nella maggior parte dei casi grandi multinazionali, riescono a garantirsi, grazie all’aumento costante della produttività dovuto ad una continua innovazione tecnologica.
Il sistema di relazioni che queste aziende, insieme ai funzionari sindacali e alla maggioranza dei delegati, portano avanti, si basa sulla tradizione tedesca della cogestione.
Anche se in Italia, diversamente dalla Germania, rappresentanti dei lavoratori non siedono nei consigli di amministrazione di queste grandi imprese, le rappresentanze sindacali vengono coinvolte sistematicamente nelle decisioni sull’organizzazione del lavoro ed anche su aspetti come la stabilizzazione dei precari e gli avanzamenti di carriera, tramite una contrattazione capillare e articolata. Spesso i problemi più urgenti o le questioni tecniche sono gestite da commissioni bilaterali specifiche.
Landini, intervistato dal conduttore nella seconda parte della trasmissione, oltre a portare i casi precedenti ad esempio dei risultati che si possono ottenere con la contrattazione sindacale, cerca di delineare una prospettiva più generale. In realtà non è nulla di nuovo rispetto a ciò che abbiamo già sentito molto spesso negli ultimi anni. Esprime cioè la volontà di “ragionare”, con gli imprenditori e con le istituzioni ed in particolare il governo, presumibilmente ad un bel tavolo di concertazione, sulla necessità di investire denaro sull’innovazione tecnologica, dei prodotti e dell’organizzazione del lavoro, in modo tale da accrescere il tasso di produttività di una quantità tale da consentire la riduzione di orario, ciò senza scalfire i profitti dei padroni (ma quest’ultimo aspetto si guarda bene dal citarlo). Ancora più convintamente sembra infatti sostenere che l’aumento di produttività, oltre che dell’occupazione, si possa ottenere dal pieno utilizzo degli impianti, vale a dire 24 ore al giorno dal lunedì alla domenica. Decisamente non una bella prospettiva per gli operai, che si troverebbero a lavorare in ogni caso anche di notte e nei giorni festivi, seppure a fronte di un orario minore. Inoltre, in senso generale, verrebbe da chiedersi a cosa serve, in molti comparti, investire per aumentare la produttività se le merci in circolazione sono troppe e finiscono invendute; e questo se lo chiedono anche gli imprenditori.
La puntata passa poi ad occuparsi tra gli altri argomenti di una delle modalità di lavoro che stanno diventando più diffuse nelle aziende ad alta innovazione tecnologica: il lavoro da remoto.
Il cosiddetto “smart working” è di fatto il risultato di una riorganizzazione dei modi e tempi di lavoro che riguarda un intero settore della classe, anche se minoritario. Si tratta di impiegati amministrativi delle aziende manifatturiere, ma anche dei lavoratori dell’informatica, degli operatori dei call center. Queste categorie negli ultimi anni hanno affrontato un importante processo di proletarizzazione. Anche per una parte di operai specializzati si sta aprendo la possibilità di lavorare da remoto.
In generale i lavoratori sembrano essere favorevoli a questa possibilità, anche se ci sono importanti differenze dovute alle condizioni materiali nelle quali vivono. In particolare se si ha a disposizione uno spazio insufficiente, oppure una connessione internet debole magari pagata di tasca propria e non fornita dall’azienda, o se si convive con figli piccoli che hanno bisogno di accudimento e cure continuative, le condizioni di lavoro diventano critiche.
Anche per quanto riguarda la gestione del tempo vi possono essere difficoltà. Le pressioni dei padroni sono spesso molto forti, ed in molti casi finiscono per favorire il super-sfruttamento, e di frequente lo sforamento non riconosciuto e non pagato delle 8 ore di lavoro giornaliere. Nascono nuove esigenze da parte dei lavoratori, come il diritto alla disconnessione, per porre un argine a questa situazione.
L’obiettivo del sindacato, come emerge dal contesto generale, sarebbe quello di ottenere un mix di lavoro a distanza per le attività che lo consentono e di riduzione di orario a parità di salario per quelle che devono essere svolte in presenza. Si tratterebbe di estendere a tutti, insomma, ciò che già si pratica in alcune aziende, persuadendo gli imprenditori e lo Stato, sulla disponibilità all’intervento del quale i sindacati nutrono molte illusioni, della convenienza di questa prospettiva.
Si tratta di un obiettivo che allo stato attuale è molto difficile da raggiungere anche per una questione di metodo.
Nell’attuale contesto di crisi economica, accelerata dal Covid ma iniziata prima della sua comparsa, in una situazione nella quale in particolare l’Italia non si è ancora ripresa dagli effetti della recessione del 2008, la collaborazione di classe funziona solo per determinati settori industriali: quelli nei quali i profitti, per le particolari condizioni del mercato e/o caratteristiche della produzione, sono più alti, talmente alti da consentire all’avidità dei padroni di tenersi un margine per elargire qualche concessione ai lavoratori, che ormai hanno i salari medi più bassi d’Europa.
In realtà, come si è visto con la recente rottura delle trattative per il rinnovo del CCNL dei metalmeccanici, la classe dominante e il nocciolo duro della sua organizzazione industriale è largamente schierata per non concedere alcun aumento salariale. Di più: il presidente di Confindustria Bonomi è il primo ad avvertirci su quello che ci aspetta, vale a dire un’ondata di licenziamenti non appena sarà finito l’effetto del blocco dovuto all’ emerganza sanitaria.
A maggior ragione non vi sono spazi per investimenti, né per alcuna forma di concertazione. Non la vogliono i padroni, ma nemmeno i lavoratori. Tra questi ultimi la rabbia sta montando, come si è già visto nelle giornate di marzo 2020, quando soltanto l’azione collettiva dal basso ha imposto la chiusura di molte fabbriche di fronte all’avanzata della pandemia. Nuove esplosioni si potranno riproporre.
La consapevolezza che i profitti sono di coloro che materialmente li producono è sempre più chiara ogni giorno che passa e si va espandendo a macchia d’olio, in tutti i settori della classe lavoratrice: anche in molte aziende che non sono in crisi, i padroni vogliono tenersi tutti i profitti e non hanno la minima intenzione di redistribuirne nemmeno le briciole. Nello stesso tempo, l’emergenza che stiamo continuando a vivere giorno dopo giorno incide profondamente nella coscienza di strati sempre più ampi di lavoratrici e lavoratori.
Sono queste le basi di una possibile stagione di conflitto sociale nel prossimo futuro.
Di fronte agli inevitabili tentennamenti dei vertici sindacali, terrorizzati da una simile prospettiva, è necessità dei lavoratori mantenere la barra dritta nel conflitto che si va a delineare, agendo con la giusta determinazione. Solo in questo modo potremo cogliere la possibilità, di un avanzamento significativo per le condizioni di vita e di lavoro di tutti noi, che la situazione generale economica, sociale e politica ci sta ponendo dinanzi.