L’ANNO NERO DEI FONDI PENSIONE

L’ANNO NERO DEI FONDI PENSIONE

Il Corriere della Sera Economia ha pubblicato qualche giorno fa un lungo articolo per dimostrare ai propri lettori che “malgrado le apparenze”, “spostare il Tfr in un fondo pensione è davvero la scelta più conveniente”.

Si tratta evidentemente della risposta del principale quotidiano borghese italiano alle conclusioni, di segno esattamente opposto, dell’ultima relazione semestrale della Commissione di Vigilanza sui Fondi Pensione (COVIP), l’ente che esercita la “vigilanza prudenziale sulle forme pensionistiche complementari”. La relazione contiene diverse sorprese, ma prima occorre fare un passo indietro.

Nel 2005 fu introdotto il meccanismo per cui il trattamento di fine rapporto (TFR, la c.d. “liquidazione”) dei lavoratori dipendenti, ossia una parte della retribuzione accantonata ogni mese ed erogata alla cessazione del rapporto, viene automaticamente destinata a fondi pensione a meno che il lavoratore, al momento dell’assunzione, dichiari espressamente di volerla lasciare in azienda: si tratta del cosiddetto “silenzio-assenso”.

La norma porta la firma dei ministri Maroni e Tremonti (governo Berlusconi ter), ma fu fortemente voluta anche dal successivo governo Prodi che ne anticipò di un anno l’entrata in vigore, originariamente prevista nel 2008. La riforma ebbe anche il consenso dei sindacati – CGIL in testa – che promossero attivamente l’adesione dei lavoratori, in particolare, ai c.d. Fondi negoziali, ossia quelli istituiti nell’ambito della contrattazione collettiva e amministrati dalle stesse organizzazioni sindacali congiuntamente alle associazioni padronali.

All’epoca dell’entrata in vigore della riforma, fummo tra i pochi a denunciarne le vere finalità, e a mettere in guardia dai rischi derivanti dall’investire la propria liquidazione sui mercati finanziari. A sentire tutte le altre campane – comprese purtroppo quelle provenienti dai sindacati di categoria – le forme pensionistiche complementari costituivano invece un’occasione per i lavoratori per mettere a frutto la propria liquidazione e ottenere rendimenti più elevati rispetto a quelli previsti dalla legge per il TFR lasciato in azienda.

Quest’ultimo si rivaluta annualmente di un tasso fisso dell’1,5% e di un ulteriore tasso variabile pari al 75% dell’inflazione: dunque ha un rendimento davvero garantito e almeno parzialmente agganciato all’aumento del costo della vita.

Al contrario, nonostante tutte le rassicurazioni degli istituti finanziari, il rendimento dei fondi pensione di qualunque tipo (negoziali, aperti o assicurativi) è legato esclusivamente all’andamento dei mercati finanziari, e nulla impedisce che possa essere anche negativo.

È precisamente quello che è accaduto nell’ultimo anno, rivela la COVIP nel suo rapporto citato all’inizio: “Nel 2022 i risultati delle forme complementari hanno risentito del calo dei corsi dei titoli azionari e del rialzo dei tassi di interesse nominali, che a sua volta determina il calo dei corsi dei titoli obbligazionari. I rendimenti netti sono pertanto risultati negativi e pari, in media tra tutti i comparti, a -9,8 e a -10,7 per cento, rispettivamente, per fondi negoziali e fondi aperti”. Rendimenti ancora peggiori hanno avuto i fondi di natura assicurativa (PIP), in calo dell’11,5 per cento.

La relazione fornisce anche i dati del rendimento delle forme pensionistiche complementari “su orizzonti più propri del risparmio previdenziale”, ossia sul periodo complessivo degli ultimi dieci anni: ebbene, perfino su un periodo così lungo, il rendimento medio dei fondi pensione non supera quello del TFR lasciato in azienda e rivalutato secondo le regole tradizionali. Dunque è bastato un solo anno di “oscillazioni nei mercati” e di inflazione maggiore per azzerare tutti i presunti vantaggi dei fondi pensione.

È da notare inoltre, da un lato, che anche i cosiddetti “fondi garantiti”, ossia quelli che teoricamente dovrebbero mettere il lavoratore al riparo da eventuali perdite, hanno avuto nell’ultimo anno un rendimento negativo mediamente tra il 6 e il 7 per cento, che porta il rendimento decennale a valori prossimi allo zero e molto inferiori a quello del TFR lasciato in azienda. Dall’altro, che non c’è alcuna sostanziale differenza tra i fondi negoziali – co-gestiti dai sindacati e teoricamente più affidabili – e quelli aperti ossia gestiti direttamente da istituti finanziari. A riprova del fatto che non esistono investimenti realmente garantiti.

Sono ancora più valide oggi di allora, dunque, le parole che scrivemmo nel 2007: “I fondi rappresentano un grande affare solo per i padroni, i veri beneficiari di eventuali guadagni coi quali possono darsi alla speculazione più sfrenata senza il rischio di perderci visto che i soldi ce li mettono i lavoratori. Ci si dice che questo reddito sarà garantito dagli alti rendimenti dei fondi pensione, ma nessun fondo pensione + in grado di garantire nulla né tanto meno lo stesso rendimento garantito dal TFR.” Siamo stati facili profeti.

Nel frattempo la quota percentuale di dipendenti che ha aderito a forme di previdenza complementare, anche per via del subdolo meccanismo del “silenzio-assenso”, è quasi triplicato rispetto all’epoca precedente alla riforma, con un flusso annuale di contributi che nel 2022 è stato complessivamente di quasi 14 miliardi di Euro.

Come dicemmo già all’epoca, oltre che un gigantesco regalo agli istituti finanziari, il trasferimento del TFR dei lavoratori alle forme pensionistiche complementari è anche un obiettivo strategico del padronato perché è funzionale allo smantellamento del sistema previdenziale pubblico: si giustifica il taglio delle pensioni pubbliche con i presunti rendimenti delle pensioni private.

Ecco perché, anche di fronte ai dati catastrofici forniti dalle stesse istituzioni, la stampa borghese si arrampica sugli specchi pur di negare l’evidenza e continuare a raccontare la favola dei fondi pensione.

Al contrario, ora che questa favola è stata spazzata via dalla dura realtà, si rende più necessaria che mai la lotta per difendere il diritto dei lavoratori a mantenere intatta la loro retribuzione senza scommettere il proprio TFR in borsa e a pensioni pubbliche dignitose.