Assemblea nazionale Giornate di marzo: il documento finale.
Pubblichiamo il documento finale approvato all’unanimità all’assemblea nazionale dell’area di alternativa in Cgil Giornate di Marzo sabato 20 gennaio a Bologna alla presenza di oltre 100 militanti e delegati sindacali. L’assemblea si è conclusa con l’elezione, all’unianimità, del Coordinamento nazionale composto da 38 compagni e compagne.
IV Assemblea nazionale Giornate di Marzo
Il risveglio delle lotte economiche
L’esplosione dell’inflazione su scala mondiale ha rimesso all’ordine del giorno la lotta salariale come non avveniva da decenni. Ormai da due anni assistiamo a ripetute ondate di scioperi e un ritorno alla sindacalizzazione, che ha visto la Gran Bretagna e gli Stati Uniti in prima linea, ma che è un fenomeno ben più ampio.
Normalmente le lotte salariali vengono associate alle fasi di ascesa dell’economia, quando l’economia si avvicina alla piena occupazione, la domanda “tira” e i lavoratori percepiscono di avere un maggiore potere contrattuale.
Tuttavia l’epoca attuale è tutt’altro che “normale” e dobbiamo analizzare a fondo le basi oggettive e soggettive di questo fenomeno che per noi assume una importanza centrale.
Non siamo infatti di fronte alla classica ripresa ciclica del capitalismo, tutt’altro.
I fattori alla base di queste lotte sono stati i seguenti:
1) Il rapido passaggio dalla fase dei lockdown con il relativo crollo della produzione, a una ripresa disordinata e frenetica, alimentata dai piani di spesa degli Stati, hanno creato una vera e propria scossa nella coscienza di milioni di lavoratori, che ha percepito con chiarezza il loro ruolo di elemento indispensabile dell’economia capitalistica.
2) Il brusco aumento dei prezzi è piombato inaspettato su salari già spinti al ribasso da un decennio di politiche di austerità seguiti alla crisi del 2008-9. Salari che erano considerati a malapena sufficienti sono rapidamente crollati sotto il livello di povertà, e questo è stato un fenomeno che non ha colpito solo settori particolarmente deboli e frammentati della classe, ma anche la classe operaia industriale e settori sindacalizzati che godevano di salari relativamente alti.
3) Il fenomeno dell’inflazione era sostanzialmente sconosciuto nei paesi a capitalismo avanzato, tranne per le generazioni più anziane. Le sconfitte subìte dal movimento operaio nei primi anni ’80, quando la borghesia condusse la sua controffensiva sotto la parola d’ordine della lotta all’inflazione, sono lontane nel tempo e la campagna sul rischio della “spirale salari-prezzi” non ha avuto alcuna eco fra le masse.
4) Dopo circa un trentennio di precarizzazione e flessibilità, il ricatto della perdita del posto di lavoro viene visto in modo ben diverso dal passato, quando il mito del “posto fisso” (che non era solo il posto di lavoro statale, ma anche il posto alla Fiat o in altre grandi fabbriche) esercitava una reale attrattiva sulla classe. Oggi un lavoratore sa che può perdere il lavoro per mille motivi, un contratto a termine non rinnovato, la fine di un appalto, ecc. Per vasti strati della classe l’idea di tenere la testa bassa per arrivare poi a condizioni migliori ha perso molta credibilità.
5) Il Covid ha creato fra i lavoratori un elemento di insubordinazione, non organizzato ma molecolare, di rifiuto dei ritmi forsennati, del lavoro senza fine. Un fenomeno che spiazza gli economisti borghesi che si interrogano disperati sul fatto che la produttività non cresce più come in passato (o non cresce affatto).
6) La miscela micidiale tra le politiche monetarie follemente espansive (fino al 2022), il protezionismo e poi le sanzioni legate alla guerra in Ucraina hanno messo in luce come l’esplosione dei prezzi abbia cause sia economiche che politiche e sia strettamente connessa alle politiche della classe dominante, ai suoi interessi imperialistici, ecc.
Questi elementi hanno creato in numerosi settori dell’economia un rapporto di forze favorevole ai lavoratori, che sono passati alla controffensiva.
La lotta della UAW
L’esempio più recente è la vertenza degli operai del settore automobilistico negli USA, organizzati dal sindacato UAW.
L’UAW ha avanzato una piattaforma nettamente offensiva. I punti salienti erano una richiesta del 40 per cento di aumento, il ripristino del COLA (un meccanismo di indicizzazione dei salari) l’abolizione del sistema dei salari d’ingresso, che divideva i lavoratori in tre scaglioni con salari fortemente differenziati, e miglioramenti sul fondo pensionistico.
La vertenza è stata condotta con una serie di scioperi articolati, sostenuti dalla cassa di resistenza del sindacato, che miravano a disarticolare la produzione con il minimo dispendio di forze da parte dei lavoratori. Dopo sei settimane si è arrivati all’accordo prima con Ford, a seguire con Stellantis e infine con GM.
Per quanto l’accordo sia un compromesso nella classica logica dei sindacalisti (anche i migliori), e i dirigenti sindacali si siano sottratti da una qualsiasi prospettiva di dare una spallata decisiva che mettesse in campo una mobilitazione generale dei lavoratori, va studiato e discusso perché contrasta nettamente con l’abdicazione dalla lotta salariale (e non solo) da parte della CGIL.
L’aumento salariale è consistente: 5000 dollari di una tantum, 25 per cento di aumento in 4 anni di cui l’11% subito (anzi, retroattivo anche sul periodo della vertenza). Ci sarà un mecccanismo di indicizzazione basato sul CPI, l’indice ufficiale dell’inflazione USA. Si stima che potrebbe portare l’aumento attorno al 30 per cento.
Interessante un aspetto egualitario: gli aumenti sono nettamente più importanti nei settori meno pagati. Il meccanismo che portava ad arrivare al salario pieno viene compresso passando da 8 a 3 anni. Si apre a una stabilizzazione dei precari (automatica 3 mesi continuativi di lavoro per quelli già in forza, dopo 9 mesi in futuro). Anche sul fondo pensioni, dove con la crisi del 2007 la UAW aveva accettato un trattamento peggiore per i nuovi assunti, si pareggiano i contributi a carico delle aziende innalzandoli nettamente.
La distanza più netta rispetto alla piattaforma è sulla riduzione d’orario, dove non sono stati ottenuti risultati. Tuttavia va detto che non c’è lo “scambio” cui siamo abituati da anni di concertazione: salario contro diritti, diritti dei “vecchi” contro peggioramenti per i “giovani”, ecc.
Fain ha sempre dichiarato che l’obiettivo della UAW è di sindacalizzare i gruppi non sindacalizzati: Tesla, Toyota, Volkswagen, ecc. È significativo che pochi giorni la firma dell’accordo con le “Big Three”, sia Toyota che Hyundai hanno alzato unilateralmente i salari con percentuali simili a quelle dell’accordo, nel tentativo di depotenziare una campagna di sindacalizzazione.
Inflazione, lotta di classe e austerità
Come marxisti abbiamo consapevolezza che la lotta salariale è una lotta che non mette in discussione i limiti del capitalismo. A questo si riferiva Lenin quando parlava della “coscienza tradeunionistica” come di una coscienza riformista e non rivoluzionaria. Prima ancora Marx ricordava come nelle sue linee fondamentali la lotta economica sia una rincorsa continua per impedire che la concorrenza sul mercato del lavoro spinga il prezzo della forza lavoro, ossia il salario, al di sotto del suo valore reale.
Questi concetti fondamentali rimangono assolutamente validi e devono fare parte della consapevolezza di tutti i nostri compagni. Non ci appartiene l’idea “pansindacalista” che con la sola lotta sindacale si possa arrivare a un cambiamento del sistema.
Tuttavia questi concetti generali vanno calati nell’analisi concreta della fase che stiamo attraversando.
Oggi la lotta economica sta svolgendo un ruolo fondamentale nella ricomposizione della classe lavoratrice, nella sua presa di coscienza come classe.
Questo aspetto preoccupa profondamente la borghesia e non è l’ultima delle considerazioni che guidano la sua “lotta all’inflazione”. Infatti se è vero che l’aumento dei prezzi ha creato problemi per la classe dominante e forti contraddizioni tra settori del capitale che ci guadagnano e altri che ci perdono, c’è soprattutto un prezzo che i padroni non vogliono vedere aumentare a nessun costo: il prezzo della forza lavoro.
La stretta sui tassi d’interesse a livello mondiale ha innanzitutto questo scopo politico: colpire il potere contrattuale della classe lavoratrice.
Recentemente Tim Gurner, un grande speculatore immobiliare australiano e uno degli uomini più ricchi del suo paese ha detto pubblicamente che era necessario che il tasso di disoccupazione nel paese (3,7%) salisse al 40-50% “per ridurre l’arroganza sul mercato del lavoro”, sostenendo che “c’è stato un cambiamento sistematico per cui i dipendenti sentono che il datore di lavoro è molto fortunato ad averli. Dobbiamo ricordare alle persone che sono loro a lavorare per il datore di lavoro, e non il contrario.”
Le sue parole sono state riprese da Andrew Michelmore, presidente del Minerals Council of Australia, l’associazione padronale dell’industria estrattiva, che ha lamentato che “i dipendenti si sono abituati a guadagnare gli stessi soldi, ma senza mettere le stesse ore.”
Al di là che Gurner abbia poi fatto marcia indietro dopo una valanga di critiche sui media, non ha fatto altro che dire ad alta voce quello che moltissimi padroni pensano.
Nel Terzo periodo degli errori dell’Internazionale comunista, Trotskij spiega in che modo la lotta economica si inserisca nel processo di presa di coscienza della classe lavoratrice:
“Si deve dire chiaramente che per la classe operaia francese – la quale almeno in due riprese ha rinnovato la sua composizione sociale durante la guerra e dopo la guerra, in tal modo ha riunito nelle sue fila immense quantità di giovani, di donne, di stranieri, ed è ancora ben lungi dall’avere amalgamato nel suo seno questo materiale umano – per la classe operaia francese l’ulteriore evoluzione della ripresa industriale creerebbe una scuola impareggiabile, serrerebbe le sue fila, mostrerebbe alle sue fasce più arretrate la loro importanza e il loro ruolo nel meccanismo capitalistico e, di conseguenza, porterebbe a un livello nuovo la coscienza che la classe operaia ha di se stessa. Due o tre anni, persino un anno di lotta economica ampia e vittoriosa, trasfigurebbero il proletariato. E, dopo una ripresa correttamente utilizzata, la crisi congiunturale può dare un serio impulso a una reale radicalizzazione delle masse”.
Uno degli aspetti fondamentali delle recenti lotte in Gran Bretagna e negli USA è stato il conflitto interno ai sindacati che le ha precedute. Abbiamo già trattato il processo di ricambio dei gruppi dirigenti che ha coinvolto importanti sindacati nel Regno Unito.
Altrettanto si dica della UAW, uno dei sindacati più corrotti e opportunisti degli USA, dove una serie di scandali ha costretto la direzione ad eleggere la direzione con una primaria aperta, fatto che ha favorito l’ascesa di una corrente più combattiva fino ad allora minoritaria capeggiata da Shawn Fain, che è diventato presidente del sindacato.
Questi processi vanno compresi in connessione ai fattori sopra indicati, ma anche a dinamiche politiche che esulano dalla semplice lotta sindacale. Sia negli USA che in Gran Bretagna, infatti, abbiamo assistito negli anni scorsi a una ascesa importante del riformismo di sinistra, incarnato rispettivamente da Bernie Sanders e Jeremy Corbyn. Per motivi che non è necessario qui richiamare, questi movimenti sono stati sconfitti (Corbyn) o riassorbiti (Sanders). Questa sconfitta politica ha indubbiamente orientato il movimento sul terreno economico e sindacale, dove ha raggiunto una ampiezza che da decenni non si vedeva.
In Francia il movimento ha assunto un carattere parzialmente diverso e più politico, essendo stato dettato dalla necessità di rispondere a un attacco frontale del governo al sistema pensionistico. Questo ha dato agli scioperi un carattere più generalizzato e sincronizzato, e un elemento direttamente politico, in particolare quando Macron ha imposto la “tagliola” parlamentare per far passare a tutti i costi la sua controriforma, mettendo più che mai a nudo il carattere di classe delle “istituzioni democratiche”.
La situazione in Italia
In Italia esistono gli stessi elementi oggettivi che sono stati alla base delle lotte in altri paesi. Non solo: anche al livello della coscienza di massa dei lavoratori è indiscutibile che esista una rabbia diffusa e una disponibilità ad appoggiare una mobilitazione sul terreno economico, anche con obiettivi radicali. Lo testimonia l’appoggio generale che hanno parole d’ordine come il salario minimo o la reintroduzione della scala mobile, come abbiamo verificato direttamente quando abbiamo fatto agitazione davanti ai luoghi di lavoro con questa parola d’ordine.
Anche i recenti scioperi di Pomigliano e di Melfi rientrano pienamente nel quadro che abbiamo tracciato. Nonostante il fatto che in generale il settore auto in Italia continui ad essere in profonda crisi, con una produzione complessiva crollata alle 450mila vetture (nel 2017 era ancora oltre 1 milione), con un’incertezza generale che grava sul futuro del gruppo Stellantis, la pressione per aumentare la produzione a Pomigliano ha generato una ripresa degli scioperi e un maggiore attivismo della FIOM, perlomeno a livello locale. Non a caso i sindacati firmatari hanno dovuto alzare le richieste salariali per rinnovare il CCSL e hanno dovuto convocare unitariamente lo sciopero provinciale di Melfi.
Si tratta per ora di una mobilitazione circoscritta ma chiaramente sintomatica di un processo più ampio, nell’industria e non solo.
A fare la differenza rispetto ad altri paesi è stata fino a qui la capacità dell’apparato della CGIL di paralizzare la classe, opponendo una ostinata resistenza a qualsiasi ipotesi di mobilitazione reale.
La segreteria di Landini si sta impegnando per passare alla storia come il peggiore esempio di immobilismo burocratico e di codardia politica perlomeno dal dopoguerra.
Nel 2020, all’esplodere della pandemia, l’apparato della CGIL si mise letteralmente in quarantena, chiudendo le sedi e interrompendo qualsiasi dialogo con la classe. Quegli avvenimenti sono già stati analizzati nella nostra scorsa conferenza e non è necessario ritornarci oggi.
Ma anche dopo la riapertura le cose non sono migliorate, al contrario.
La prassi è ormai quella di sottrarsi sistematicamente a qualsiasi confronto reale con i lavoratori. Le assemblee nelle aziende vengono viste come un fastidio o un pericolo. L’attività sindacale, a parte quella dei servizi, è ridotta a una rappresentazione.
I gruppi dirigenti delle categorie sono arrivati a teorizzare e soprattutto a praticare l’idea che nelle trattative sia un errore avanzare piattaforme con richieste precise, particolarmente sul piano economico. Da qui una crisi senza precedenti dell’organizzazione, scesa ormai nettamente sotto la soglia simbolica dei 5 milioni di iscritti, ma soprattutto una crisi della strategia contrattuale.
Mentre scriviamo queste tesi sono quasi 7 milioni i lavoratori con contratto scaduto, ma non si tratta solo di questo. I contratti vengono rinnovati con ritardi crescenti, spesso clamorosi. Si pensi alla scuola e a tutti i settori del pubblico impiego, che nell’ultimo triennio hanno rinnovato i loro contratti che, nel momento della firma, erano di fatto già scaduto.
Il commercio non vede un vero rinnovo dal 2013, una vera e propria voragine a cui la burocrazia sindacale ha risposto accettando delle elargizioni ridicole che hanno portato, per i lavoratori della grande distribuzione, a una perdita reale stimabile attorno ai 2000 euro l’anno. E si potrebbe continuare.
La burocrazia ha di fatto abdicato al compito più elementare di qualsiasi sindacato, anche il più arretrato: contrattare il salario. Hanno sostituito la rivendicazione economica con la richiesta di sgravi fiscali al governo, ossia nelle condizioni date con delle vere e proprie partite di giro per cui mentre con una mano lo Stato riduce le tasse di qualche decina di euro, con l’altra aumenta le imposte indirette (accise, IVA) e riduce i fondi ai servizi essenziali per le famiglie operaie, a partire dalla sanità.
L’unica parziale eccezione era stata la piattaforma dei metalmeccanici con la richiesta dei 153 euro lordi, non a caso avanzata durante il periodo del governo Lega-M5S, e poi largamente disattesa al momento della firma.
La CGIL e il governo Meloni
Da allora, l’unica azione del gruppo dirigente è stata quella di chiedere tavoli di confronto ai vari governi, incluso il governo Meloni, nella vana speranza di potere per questa via determinare la destinazione di almeno una parte dei flussi di spesa pubblica, in particolare del PNRR.
Se con il governo Conte 2 Landini poteva contare su un effettivo potere di veto, questo è andato svanendo col governo Draghi e ancora di più dopo le elezioni politiche.
L’idea che la destra abbia vinto le elezioni perché i lavoratori arretrati l’hanno votata è saldamente radicata nella falsa coscienza dei dirigenti sindacali e li fa sentire profondamente delegittimati. Di conseguenza, l’atteggiamento dei vertici sindacali verso il governo Meloni è stato di smarrimento e sudditanza psicologica come dimostra anche l’episodio dell’invito al congresso nazionale. Per circa un anno come un disco rotto Landini ha chiesto tavoli, confronti, “ascolto delle parti sociali”.
La conseguenza di una piattaforma sindacale inesistente è stata, inevitabilmente, una azione fittizia.
È vero, sulla carta sono stati convocati addirittura due scioperi generali da CGIL e UIL, nel dicembre del 2021 e poi del 2022. Ma questi scioperi sono stati una vera e propria messinscena, in particolare il secondo. Le cose hanno una loro logica inesorabile: se non c’è una piattaforma, non ci può essere nessuna seria preparazione perché manca qualsiasi argomento per mobilitare i lavoratori. E senza mobilitare realmente la classe, questi scioperi sono stati poco più che delle (piccole) manifestazioni alla presenza dell’apparato, dei delegati e di una ristretta cerchia di lavoratori.
Non differente è stata la gestione dello sciopero convocato dalla FIOM nel luglio del 2023.
L’immobilismo e la finzione burocratica sono diventati la prassi per un apparato che ormai fa congressi finti, con una opposizione finta, convoca scioperi finti. Perché si rompa questo circolo vizioso sarà necessaria una forte spinta contraria.
È in periodi come questi che gli attivisti pagano il prezzo più alto. Una parte si adatta all’andazzo che viene dal vertice, mentre i più onesti e i più combattivi si trovano costretti a lunghe traversate nel deserto in condizioni di isolamento. È fin troppo facile in queste condizioni che anche elementi validi arrivino a conclusioni sbagliate e maturino un pessimismo di fondo verso la classe. Nelle fasi in cui la massa dei lavoratori è passiva sul piano sindacale e matura una forte critica, per non dire anche ostilità, verso il sindacato e i suoi dirigenti, l’apparato si arrocca nelle sue stanze dove i funzionari continuano a ripetere che loro vorrebbero fare grandi cose, ma i lavoratori sono arretrati e non li capiscono. Anche i migliori delegati possono essere influenzati e demoralizzati da questo clima di scetticismo.
È in queste situazioni che diventa decisiva la prospettiva politica, il legame con l’organizzazione nazionale e internazionale, con la teoria: sono questi i contrappesi che ci permettono di non essere trascinati dalla deriva burocratica e soprattutto di guardare la classe per quello che è, al di sotto dello strato dei delegati e degli attivisti.
Bilancio della lotta della GKN
Anche se negli anni recenti il tema salariale è al centro dell’attenzione, le vertenze per la difesa dell’occupazione e delle aziende in crisi hanno avuto un ruolo importante e in alcuni momenti centrale. Peraltro date le prospettive al ribasso per l’economia, è facile prevedere che nel prossimo futuro queste vertenze si riaccenderanno (Taranto, Cornigliano, Piombino, ecc.) e se ne aggiungeranno di nuove.
È quindi fondamentale trarre un bilancio della vicenda della GKN, che è stata quella che ha avuto il maggiore impatto politico, pur non essendo quella con il maggior numero di lavoratori coinvolti.
La lotta della GKN ha assunto sin da subito un carattere di rottura. La proprietà (fondo Melrose) ha sferrato un attacco totale praticamente senza preavviso con la chiusura immediata comunicata via sms la notte precedente. La speranza era probabilmente di cogliere di sorpresa e stordire i lavoratori (inutile preoccuparsi dei dirigenti sindacali…) con una specie di guerra-lampo. Se questo tentativo non è andato a buon fine è stato esclusivamente perché esisteva in fabbrica una forte sindacalizzazione e un rapporto di solida fiducia tra i lavoratori e la RSU, storicamente guidata dalla sinistra della FIOM, che negli anni precedenti aveva condotto una contrattazione più avanzata della media delle altre aziende e favorito una maggiore partecipazione dalla base.
È stata la reazione immediata dei delegati e degli attivisti, con la decisione di occupare lo stabilimento, a proiettare la vertenza su un piano più alto e a porla all’attenzione nazionale. L’assemblea permanente è diventata il punto di riferimento di tutti gli attivisti di opposizione nella CGIL. Praticamente ogni RSU critico verso il vertice della CGIL che c’era in Italia ha fatto una visita di solidarietà al presidio. A questi si sono sommati gli attivisti dispersi della “sinistra diffusa”; questo movimento di solidarietà ha trovato il suo culmine nell’enorme corteo (20mila partecipanti) tenuto a Firenze il 18 settembre 2021.
Dobbiamo dire chiaramente che il potenziale di quel movimento è stato in larga misura dissipato dalle responsabilità della direzione.
Va detto innanzitutto che anche se sulle forme e i tempi della lotta la gestione è rimasta in mano ai delegati e all’assemblea, la trattativa è stata condotta sempre dai dirigenti sindacali, che l’hanno mantenuta nei canoni ben conosciuti: ammortizzatori sociali, girandola di ipotesi di reindustrializzazione, nuovi proprietari, ecc., mentre i lavoratori si cuocevano a fuoco lento.
Abbiamo trattato a suo tempi i dettagli della vicenda nel nostro materiale, richiamiamo quindi solo i punti critici fondamentali:
1) Ogni ipotesi di battaglia per la nazionalizzazione è stata considerata impraticabile e quindi di fatto esclusa dalle rivendicazioni.
2) I delegati si sono consapevolmente opposti a qualsiasi forma di coordinamento con altre fabbriche in lotta contro la chiusura che pure si stavano mobilitando, come ad esempio la Whirlpool di Napoli.
Il secondo punto è particolarmente importante, perché è chiaro che una rivendicazione come la nazionalizzazione richiedeva una forza d’urto superiore a quella dei poco meno di 400 dipendenti che contava la GKN. Tuttavia la presenza di un vasto movimento di solidarietà, il fatto che ci fossero altre vertenze aperte e anche lo sviluppo nella società di un ambiente ostile alle privatizzazioni e potenzialmente più favorevole alla rivendicazione della nazionalizzazione, in particolare dopo i casi Autostrade e Ilva, rendeva questa prospettiva tutt’altro che astratta.
Si è invece seguita una linea di rapporti “intersezionalisti” con realtà di ogni genere in una logica da “coalizione sociale” che ha sempre più offuscato il carattere di classe e politico della vertenza.
L’approdo cooperativo è stato lo sbocco fatale una volta che l’ambiguo accordo di “reindustrializzazione” firmato nel marzo del 2022 con la QR di Borgomeo ha dimostrato di essere una presa in giro.
La vertenza si è messa quindi sulla stessa china di altre lotte come la Rimaflow di Milano, poi Remake, che di fatto ha trasformato una fabbrica in lotta in un centro sociale (e neppure dei migliori).
La lotta non è ancora chiusa, dato che circa 180 lavoratori restano in forza alla società adesso in liquidazione e non è detto non ci sia un nuovo scatto di fronte al tentativo di licenziare anche loro. Tuttavia l’avere concentrato tutte le energie sul progetto cooperativo, con tanto di campagna di azionariato popolare per raccogliere un milione di euro, preclude la possibilità che la vertenza GKN possa svolgere un ruolo nella costruzione di una alternativa alla direzione sindacale. Piuttosto il contrario.
Il congresso e il capolinea dell’opposizione
Gli avvenimenti di questi tre anni hanno confermato ampiamente il giudizio che avevamo dato sulla minoranza congressuale, giudizio che ci aveva spinto a separarcene promuovendo l’area Giornate di marzo.
Il congresso celebrato nel marzo del 2023 rappresenta sicuramente quello più burocratico della storia della Cgil. La maggioranza del milione e trecentomila voti dichiarati sono stati decisi a tavolino, come la maggioranza delle 40mila assemblee dichiarate non sono state realmente svolte, le assisi dai congressi provinciali fino a quello nazionale sono stati quasi esclusivamente una tavola rotonda per “dialogare” coi cosiddetti referenti istituzionali.
Un fenomeno che già avevamo largamente percepito anche negli ultimi congressi ma che in questo è stato portato all’esasperazione. Una fotografia impietosa della distanza siderale tra vertice sindacale e lavoratori.
Ma se nei congressi precedenti abbiamo assistito almeno a una dialettica negli apparati burocratici della maggioranza, lo scontro Rinaldini-Epifani nel 2010, Landini-Camusso nel 2014, e allo scorso congresso Landini Colla, in questo abbiamo assistito a una vera e propria finzione dove tutto era già deciso in partenza, dibattito inesistente e spesso sempre più arretrato.
C’è un legame diretto tra la crisi del capitalismo, gli shock che si sono susseguiti in questi ultimi anni e la crisi di rappresentanza del sindacato. Davanti al precipitare continuo delle condizioni di vita della classe lavoratrice le liturgie burocratiche, le politiche di moderazione, di rivendicazione entro il quadro della compatibilità, diventano in modo più evidente insignificanti. Una burocrazia indisponibile a reagire, in quanto composta da un vertice selezionato negli anni completamente slegato dalla classe lavoratrice, non può che chiudersi ulteriormente a riccio ignorando la realtà.
Anche in passato l’apparato sindacale selezionava i suoi quadri non solo dalle fabbriche, ma anche dalle correnti politiche attive nella sinistra. Il fatto che oggi emergano in posizioni importanti quadri alcuni eredi della corrente che ha guidato negli anni 2000 il processo di liquidazione del PRC è un elemento rivelatore del declino anche politico di questa nuova leva di dirigenti.
Ma il salto di qualità ce l’ha avuto anche il documento alternativo. La parabola discendente ha toccato in questo congresso il fondo. I voti attribuiti alla minoranza sono stati 32.200, pari al 2,41%, una cifra ormai ridotta al lumicino. La costante perdita di una reale base nel movimento operaio e un ulteriore inasprimento dei toni di autoreferenzialità hanno chiuso il cerchio dell’adattamento al vertice sindacale, l’unico che può garantirgli un minimo di visibilità e dare una platea a cui parlare, cioè l’unico che può dare un senso alla loro esistenza.
Il documento alternativo si è reso complice con la maggioranza della discutibile gestione dei congressi nei luoghi di lavoro. È a causa di questa complicità che nel congresso il documento alternativo ha fatto di tutto per schiacciarci, senza per altro riuscirci. Non avendo accettato questa pantomima con la maggioranza rappresentavamo un nemico da schiacciare.
Di fatto dopo il congresso l’area Le radici del sindacato ha ridotto al lumicino le iniziative e l’attivismo di base, centralizzando ulteriormente nelle mani di poche persone le decisioni e l’attività. Tutte le ragioni per le quali abbiamo deciso di separarci, nel luglio del 2020, sono oggi ancora più valide.
Sarebbe comunque sbagliato pensare che è stata l’unificazione delle due aree, Il sindacato è un’altra cosa e Democrazia lavoro, a spostare più a destra la nuova area, il processo di adattamento alla maggioranza era già evidente ben prima del congresso Cgil. Ricordiamoci che durante la pandemia l’esecutivo de Il sindacato è un’altra cosa aveva giustificato il vertice Cgil che si era letteralmente blindato in casa abbandonando sul campo i lavoratori. Non si può neanche più parlare di finta alternativa alla maggioranza visto che Le radici del sindacato ha votato a favore o al massimo si è astenuta su tutte le principali decisioni e documenti di Landini. Siamo stati gli unici ad opporti al documento “La via Maestra” e alle piattaforme inconsistenti che il vertice sta portando ai tavoli dei rinnovi contrattuali.
Cos’è una sinistra sindacale
La verità è che l’attuale suddivisione per aree della CGIL non è il frutto di una reale differenziazione nel movimento, bensì solo il residuo di una sinistra che si è consumata un congresso dopo l’altro. La maggioranza, per i propri interessi, ha scelto di legittimare l’esistenza di questa micro-area cristallizzandola come opposizione di facciata, alla quale è permesso di presentare documenti e di usare frasi incendiarie (in verità sempre meno), ma alla precisa condizione di non aprire mai contraddizioni reali.
Il movimento sindacale per sua natura è una realtà di massa, e nessuna coalizione di piccoli gruppi, fossero anche migliori di quelli che danno la linea dentro la minoranza, può essere la base di una autentica sinistra sindacale capace di disputare la direzione della classe, o perlomeno di suoi settori significativi.
Questa considerazione va tenuta presente anche per mantenere una visione equilibrata di quello che oggi può essere un’area come GDM. L’avere strutturato un’area è stata una scelta obbligata, se vogliamo difensiva, per impedire che la degenerazione della vecchia minoranza finisse col distorcere anche la nostra attività sindacale. Oggi GDM è uno strumento utile per mantenere un intervento, per elaborare piattaforme che siano legate allo sviluppo dei conflitti reali, per formare i nostri quadri sindacali. Tuttavia siamo consapevoli che una sinistra sindacale per come questa storicamente va intesa non può nascere semplicemente dalla costruzione di un’area come la nostra.
Storicamente in Italia le sinistre sindacali sono sorte in un rapporto dialettico con momenti dirimenti della lotta sindacale. Nei primi anni ’80 fu il movimento dei consigli di fabbrica autoconvocati a dare una base importante alla sinistra sindacale, che aveva una rete di quadri derivanti dai gruppi dell’estrema sinistra e che in quel movimento poté svolgere un ruolo significativo, soprattutto nella prima fase.
Il primo congresso in cui la CGIL vide contrapporsi due documenti alternativi fu quello del 1991, dove si presentò la mozione Essere Sindacato capeggiata da Bertinotti.
La radice di Essere sindacato era nella rottura che si ebbe nella burocrazia della FIOM dopo la firma di un contratto deludente dopo un notevole dispendio di ore di sciopero (circa 120). A questo settore dell’apparato si unì la componente di Democrazia Consiliare, che derivava dalle code del movimento del 1983-84.
Negli anni ’90 e primi 2000 fu la FIOM a svolgere un ruolo di sinistra interna alla CGIL, sotto le segreterie di Sabattini e Rinaldini. Non era una contrapposizione frontale, di fatto per tutto un periodo la FIOM aveva una dialettica con la maggioranza guidata da Cofferati, che le permetteva di agire su un terreno più avanzato senza rompere politicamente con la maggioranza e anzi in determinati casi svolgendo un ruolo di apripista per l’insieme della Confederazione. Così la FIOM poteva ad esempio rompere con FIM e UILM sul rinnovo contrattuale e lanciare una mobilitazione separata (i cosiddetti “precontratti” del 2003, a cui anche noi partecipammo). La piccola sinistra sindacale che continuò ad esistere e alla quale prendevamo parte era di fatto l’ala più a sinistra di questo schieramento, tanto che nella FIOM era parte della maggioranza e presente in segreteria nazionale.
Solo nel 2010 la FIOM, assieme alla FP e alla FISAC, si farà promotrice di una mozione alternativa al congresso della CGIL, primo e unico caso in cui una corrente di opposizione si sia basata su una intera categoria. Si trattò di un esperimento fallimentare, che tentava di usare l’apparato delle categorie contro quello confederale su una base politica arretrata. Non a caso dovemmo condurre una battaglia perché la sinistra sindacale (allora Rete 28 aprile) si definisse formalmente anche nella FIOM, contro la posizione codista dei suoi dirigenti.
La lotta di Pomigliano, che ebbe il periodo più alto nei mesi tra il referendum dell’estate 2010 e quello di Mirafiori all’inizio del 2011 segnò il culmine dell’azione autonoma della FIOM, con la enorme manifestazione del 16 ottobre 2010 a Roma, che di fatto poteva prefigurare una vera e propria spaccatura nella CGIL, con forti ricadute anche sul piano politico.
Questi esempi ci mostrano che in una organizzazione di massa come il sindacato, una autentica sinistra può nascere solo da un processo di massa.
In tutti questi esempi la nostra posizione fu sempre quella di partecipare attivamente, sviluppando le nostre critiche ai limiti riformisti dei dirigenti e ponendoci in prima linea come la parte più determinata e più coerente del movimento.
La storia dei movimenti passati ci aiuta a capire le dinamiche attuali, ma dobbiamo essere consapevoli che non esiste uno schema sempre valido, che ci dispensa dall’obbligo dell’“analisi concreta della situazione concreta”. Non tutti i movimenti determinano uno spostamento a sinistra del vertice sindacale. Non tutti i movimenti determinano spaccature nell’apparato. Non tutti gli attacchi, che siano del padronato o di un governo, costringono la burocrazia a reagire con la lotta.
Per tracciare una prospettiva non basta applicare uno schema. Bisogna tenere conto della base economica, del contesto internazionale, di ciò che l’esperienza degli anni precedenti ha lasciato nella coscienza delle masse, e di molti altri fattori.
Concretamente negli anni recenti abbiamo visto il meccanismo “girare al contrario”. L’ultima mobilitazione significativa in Italia risale alla lotta contro il Jobs Act di Renzi (fine 2014), con una coda nella lotta contro la “Buona scuola”. Ma nonostante le potenzialità dovremmo parlare di una “mezza mobilitazione”, nella quale i dirigenti giocarono fin dal principio un ruolo disastroso di freno, diluendo le mobilitazioni e ritardandole coscientemente per evitare che lo scontro diventasse frontale.
Dopo di allora il film degli anni 90-2000 si è riavvolto al contrario. La FIOM, da parte più avanzata, si è trasformata nell’avanguardia della restaurazione, che come in uno scherzo di pessimo gusto si è compiuta pienamente proprio con l’elezione di Landini alla segreteria generale. Le iniziative della FIOM in questo anno, lungi dal lanciare una mobilitazione più generale, sono state la foglia di fico utile a coprire la diserzione del gruppo dirigente della CGIL, come si è visto nello sciopero di luglio 2023. Siamo arrivati al paradosso che in termini strettamente monetari ad un certo punto il contratto separato della Fiat è andato oltre il contratto nazionale.
La calcificazione burocratica nella CGIL oggi ha raggiunto un livello tale che è difficile ipotizzare spostamenti significativi nell’apparato. Vige un conformismo soffocante che si estende a un settore significativo di delegati, che si vedono assai più come terminali delle segreterie nei luoghi di lavoro che come rappresentanti dei lavoratori che ai lavoratori devono innanzitutto rendere conto del loro operato.
Tutto questo ci porta a dire che prima che si producano fatti significativi, spostamenti di posizione e rotture reali nell’apparato, sarà con ogni probabilità necessaria una forte spinta dal basso, che può anche assumere il carattere di scioperi selvaggi, autoconvocati, di coordinamenti di lavoratori e delegati, comitati di lotta al di fuori delle strutture, ecc.
Si tratta naturalmente di una ipotesi che come ogni ipotesi andrà verificata sul campo.
Tuttavia dobbiamo vedere anche l’altro lato della medaglia. Il distacco dell’apparato dalla classe lavoratrice, la sua scarsissima autorità, la sua scarsa fiducia in se stesso, significano che le capacità di questi dirigenti di contenere un movimento sono enormemente ridotte rispetto al passato.
La prossima fase
Nonostante la ovvia riluttanza dei lavoratori a scendere in campo dietro a questo gruppo dirigente, la situazione oggettiva non lascia molte vie d’uscita. Anzi, nei prossimi anni la borghesia premerà fortemente per un ritorno all’austerità e questo colpirà particolarmente l’Italia. La legge di bilancio 2024 ha già dato una chiara anticipazione di quanto si prepara. Come ha spiegato chiaramente Giorgetti, il rialzo dei tassi ha fatto volatilizzare 14 miliardi e non è rimasto nulla da distribuire. Il voltafaccia sulle pensioni, dopo le promesse di quota 41, è un passaggio importante che segnerà la coscienza dei lavoratori.
Entriamo in una fase in cui si sommeranno le conseguenze dell’inflazione, che per quanto in calo continuerà a farsi sentire, dell’austerità e di un ciclo economico che punta alla recessione.
Queste contraddizioni investiranno in pieno la CGIL.
Dopo avere cercato per un anno un terreno di dialogo col governo Meloni, Landini è stato costretto a convocare i primi scioperi. Ma per quanto la mobilitazione sia stata messa su un piano debolissimo, dividendo e “disarticolando” gli scioperi, il gruppo dirigente della CGIL ha dovuto scoprire che il governo non tiene conto del suo desiderio di pace e tranquillità e ha attaccato violentemente con Salvini in prima fila.
Questo sta radicalizzando lo scontro oltre i desideri della burocrazia, che vorrebbe una mobilitazione il più indolore possibile e si trova invece, suo malgrado, costretta ad alzare i toni.
Si tratta di uno sviluppo positivo, che pone in modo evidente davanti agli occhi dei lavoratori la natura di classe di questo governo, smascherando definitivamente la demagogia della destra e le sue false promesse. Pone soprattutto la questione dell’efficacia delle lotte, di uscire dal terreno delle mobilitazioni più o meno rituali. Questo vale anche nello scontro col padronato. Mettere in campo la propria forza, o rinunciare: questa è l’alternativa che in modo sempre più stringente si pone davanti alla classe lavoratrice. Su questa strada verranno riscoperte e rivitalizzate tutte le forme di lotta e di organizzazione che sono state svuotate di significato dalla burocrazia. In questo processo si selezioneranno le nuove avanguardie, solo attraverso il movimento reale anche la nostra organizzazione e i nostri quadri potrà mettersi alla prova e conquistare l’autorità politica e un più profondo insediamento nella classe a cui dobbiamo ambire.
Abbiamo quindi di fronte un terreno di preparazione e consolidamento delle nostre forze. Il lavoro fatto dalla scorsa conferenza, in un contesto tutt’altro che semplice, ha dimostrato le sue potenzialità
Il lavoro cominciato con la strutturazione delle nostre commissioni di settore deve svilupparsi sia dal punto di vista dell’elaborazione che della capacità di raccogliere le forze e tracciare piani di intervento che diano a tutti i compagni lavoratori e all’organizzazione nel suo insieme la possibilità di integrarsi al loro interno. Siamo già nel pieno di due rinnovi contrattuali strategici (commercio e trasporto merci), mentre a breve scadrà il contratto dei metalmeccanici. Sempre nei metalmeccanici oltre al CCNL la ripresa della conflittualità nel gruppo Stellantis e nelle altre aziende dove si applica il CCSL riapre un terreno di intervento.
Settori come la scuola, la sanità, il pubblico impiego sono al centro delle controriforme del governo il che ci deve spingere a un passo avanti anche nel nostro intervento.
Tuttavia dobbiamo avere ben presente che oggi più che mai un nostro delegato, un nostro attivista in un’azienda o un compagno eletto in un organismo non è solo un sindacalista leale alla sua classe e impermeabile a qualsiasi pressione che venga dalla burocrazia. Dobbiamo essere capaci di essere un punto di riferimento complessivo sul piano politico, su qualsiasi avvenimento che scuote la coscienza dei lavoratori e li costringe a rompere con le idee consolidate e a cercare risposte.
Il modo come è esplosa la questione palestinese sul dibattito sindacale ne è una conferma poderosa. La posizione codarda della maggioranza, che di fatto si pone in modo equidistante tra Israele e i palestinesi e nel migliore dei casi si accoda a un pacifismo più impotente che mai, apre uno spazio di scontro politico importante, che abbiamo sfruttato con la manifestazione di Modena e che dobbiamo continuare a sviluppare. Gli appelli e le iniziative sindacali internazionali di solidarietà con la Palestina sono una leva importante che dobbiamo impugnare per mettere a nudo la posizione della segreteria.
Da un lato è un nostro preciso dovere internazionalista, ma è anche un modo concreto per fare avanzare la coscienza di uno strato di attivisti come non potremmo mai fare neanche in dieci vertenze contrattuali. Una direzione incapace di difendere un popolo oppresso è altrettanto incapace di difendere i lavoratori nel proprio paese, e viceversa: questo è il messaggio che dobbiamo trasmettere e che indubbiamente troverà molte orecchie attente, in primo luogo fra i tanti lavoratori e delegati di origine araba, ma anche oltre.
Dobbiamo avere presente che anche nella classe lavoratrice il processo di presa di coscienza non procederà in una linea retta e prevedibile: dalla lotta economica alla lotta politica, dalla lotta politica alla presa di coscienza rivoluzionaria. No: in particolare fra i giovani lavoratori e lavoratrici troveremo molti nuovi militanti che si avvicineranno alla militanza sindacale in cerca di rivendicazioni e metodi di lotta pi radicali non solo sulla questione salariale o contro lo sfruttamento, ma anche per avere risposte rispetto alla crisi generale del capitalismo, agli avvenimenti internazionali, a tutte le diverse manifestazioni dell’oppressione, dal razzismo alla questione di genere.
Siamo in un’epoca di crisi organica del sistema, gli avvenimenti si susseguono a un ritmo vertiginoso: guerre, crisi, sconvolgimenti politici ambientali, sociali di ogni genere stanno generando una rottura profonda fra la coscienza della classe lavoratrice e l’ordine capitalista. Questo non cancella l’importanza basilare del conflitto economico, ma lo pone in un contesto differente dal passato. La nostra capacità di interpretarlo correttamente e di agirvi in modo efficace meno che mai può essere vista come fine a se stessa, ma sarà parte integrante del compito fondamentale nel quale siamo impegnati su scala mondiale: quello di raccogliere e organizzare una rete di quadri politicamente formati, capaci di agire in modo concertato e omogeneo, capaci di conquistarsi la fiducia dei settori più avanzati e combattivi della classe lavoratrice e di porsi alla sua testa nella lotta per rovesciare il capitalismo.
Approvato all’unanimità
Bologna 20 gennaio 2024