Ripartire dalle giornate di marzo

Ripartire dalle giornate di marzo

Come lavoratori e lavoratrici, delegati, iscritti e dirigenti della Cgil ci siamo riuniti in assemblea per una discussione approfondita sulla condizione odierna della classe  lavoratrice e soprattutto sui compiti impellenti che si trova  ad affrontare. 

Riteniamo innanzitutto che la crisi attuale costituisca la  minaccia più grave da generazioni a questa parte alle condi zioni di lavoro e di vita dei lavoratori e delle loro famiglie,  ossia della larga maggioranza della popolazione.  

La crisi sanitaria si somma e moltiplica gli effetti di una  crisi economica internazionale che era già in sviluppo da  molti mesi. Si profila una catastrofe sociale con milioni di  disoccupati, interi settori dell’economia a rischio di spari 

zione, crisi industriali, impoverimento diffuso, tracollo dei  servizi sociali, del tenore di vita complessivo e dei diritti  individuali e collettivi. Tutto questo ricade su un tessuto  economico e sociale che ancora mostrava le conseguenze  della precedente crisi del 2008, mai veramente superata. 

La crisi sanitaria ha messo a nudo come mai prima il cini smo e l’incapacità della classe dirigente e del padronato, in  Italia come ovunque. Tutto è stato subordinato all’imperativo  di garantire la produzione e i profitti, scaricando il pericolo  del contagio e le conseguenze sociali del lockdown esclusi vamente verso il basso, verso i lavoratori e i ceti popolari.  

Mai come in questi mesi è stato chiaro che per il padro nato i lavoratori sono carne da macello, mandati spesso allo  sbaraglio senza protezione, senza formazione, senza misure  adeguate, in piena diffusione del contagio, il più delle volte  per garantire la continuità di produzioni e servizi tutt’altro  che essenziali. Questo è stato vero pressoché in tutti  i settori, dall’industria ai trasporti, alla sanità, alla logistica,  all’assistenza… 

Ci siamo trovati di fronte a un attacco senza precedenti  almeno dal dopoguerra, nel quale è stato messo in discus sione il nostro stesso diritto alla vita. 

La linea di Confindustria e del governo era in effetti di  tenere tutto aperto. Come ha detto un padrone, “stare a casa  e uscire solo per lavorare”. 

Se le cose sono andate almeno in parte diversamente,  si deve ad un motivo solo: gli scioperi che nella seconda  metà di marzo hanno reso chiaro che non eravamo disposti  ad andare al massacro in nome del profitto. Solo grazie agli  scioperi spontanei scoppiati in decine e decine di fabbriche  e aziende è stata posta la questione della chiusura dei settori  non essenziali, costringendo il governo, coi decreti del 22-25  marzo, ad arrivare a una chiusura perlomeno parziale.  

Consideriamo una gravissima responsabilità dei diri genti sindacali e della Cgil in particolare di non avere agito,  di avere anzi avallato col protocollo del 14 marzo la linea  padronale e di avere parzialmente cambiato orientamento  solo dopo che l’iniziativa spontanea e determinata, dal  basso, di migliaia di lavoratori aveva fatto saltare la cappa  

di silenzio e di ipocrisia sotto la quale ci volevano costrin gere a continuare a produrre a rischio della nostra salute e  di quella dei nostri familiari. 

Per noi le giornate di marzo hanno dimostrato oltre ogni  dubbio che di fronte a un pericolo immediato la classe lavo ratrice può e sa reagire con l’azione diretta e con l’iniziativa  dal basso. Agire non come massa passiva e disgregata, utile  solo a produrre il profitto di pochi, ma come corpo capace di  una azione collettiva. Soprattutto hanno dimostrato a milioni  di lavoratori e lavoratrici che sono loro la vera forza motrice  senza la quale nulla in questa società può funzionare. 

Discutere di quali produzioni sono essenziali e quali  no, di condizioni tecniche e di organizzazione del lavoro  per garantire la sicurezza, discutere di chi ha il diritto di  far partire o di interrompere la produzione ha significato  un gigantesco cambiamento nella coscienza collettiva, nel  quale finalmente si è visto con nettezza che siamo noi ad  essere “essenziali” e i padroni ad essere “superflui” al fine  della creazione della ricchezza e del benessere sociale. 

Questa consapevolezza è emersa bruscamente nelle  circostanze drammatiche della pandemia e deve essere  accresciuta, resa più diffusa e più profonda e soprattutto più  organizzata per affrontare i nuovi problemi che incalzano. 

Ci rafforza la consapevolezza della diffusione interna zionale degli scioperi in difesa della salute, a partire dagli  Usa, dove ci sono state centinaia di scioperi spontanei per  imporre chiusure o sanificazioni, sfidando colossi del potere  padronale a partire da Amazon. 

Diciamo con nettezza che il sindacato non è stato all’al tezza delle necessità. Il vuoto di indicazioni e di inizia tiva nei giorni decisivi e cruciali è stato totale. I lavoratori  hanno dovuto assumersi una responsabilità lasciata cadere  da coloro che nel momento di maggiore pericolo, dovevano  essere i primi a farsene carico. Solo dopo che i lavoratori  hanno iniziato a muoversi di propria iniziativa c’è stata una  parziale revisione di rotta con la convocazione di alcuni  scioperi territoriali e di categoria. 

Tuttavia nella trattativa che ha portato al decreto del  25 marzo è emerso in modo netto che non c’era la volontà  di basarsi su questa straordinaria iniziativa dal basso.  La minaccia dello sciopero generale è stata agitata non per  organizzare la forza dei lavoratori, che in quel momento erano  disposti a mettere tutto il loro peso sul piatto della bilancia,  ma per impantanarsi in una trattativa fittizia col governo sui  codici Ateco e sulla effettiva portata del blocco. Fittizia perché  alla fine il governo ha deciso per proprio conto, arrivando a  un decreto colabrodo che ha permesso a decine di migliaia di  aziende (oltre 200mila) di aggirarne le norme e di continuare  a produrre, mettendo a rischio tra 2 e 3 milioni di lavoratori  che avrebbero dovuto essere esentati dal lavoro. 

Mentre il rischio sanitario è tutt’altro che sconfitto,  già si manifestano le conseguenze economiche della crisi.  

Confindustria assume una linea aggressiva e punta a usare  la crisi per distruggere i contratti nazionali, far saltare ogni  tutela collettiva, avere mano libera su tutto: orari, turni,  organizzazione del lavoro, retribuzioni, ferie… Si pretende  che i lavoratori si facciano carico di tutto: a casa quando non  c’è lavoro, ma pronti a lavorare senza orario non appena la  produzione riprenda. 

D’altra parte Confindustria rivendica miliardi a fondo  perduto per le aziende e chiede che lo Stato si faccia carico  di ogni perdita, salvo poi sparire non appena ci sia la possi bilità di fare profitti. 

Le donne lavoratrici sono sottoposte a una ulteriore  pressione, data la pretesa di scaricare su di loro anche la  paralisi della scuola ad ogni livello e la maggiore rapidità  con cui stanno venendo espulse dal mercato del lavoro. Si  pretendono lavoratori pronti a tutto in azienda, e donne  disponibili a fare da retrovia con un occhio sui figli o sui  fornelli e l’altro sul monitor del telelavoro.  

I miliardi di debito pubblico che si stanno accumulando  verranno successivamente fatti pagare ai ceti popolari,  con nuove tasse e ulteriori tagli ai servizi pubblici, alla  previdenza e allo stato sociale. È una illusione pericolosa  pensare che l’Unione europea possa attenuare la crisi con  stanziamenti a fondo perduto. Ogni euro di debito dovrà  essere ripagato, e a pagarlo saremo ancora una volta noi.  La risposta di questo sistema di fronte alla crisi è quindi  regressiva sotto ogni aspetto. 

Anche nella nuova fase registriamo che tutta l’iniziativa  del gruppo dirigente della Cgil è diretta solo a farsi ricono scere dal governo o a pietire tavoli di trattativa. Leggiamo e  sentiamo dichiarazioni inascoltabili dai nostri massimi diri genti, che favoleggiano di “cogestione” con le imprese, di  “evitare il conflitto e di investire nella mediazione sociale”  mentre il padronato ha il coltello fra i denti. 

Ci opponiamo a questa capitolazione e riteniamo indi spensabile una battaglia nei luoghi di lavoro e nel sindacato  perché si affermi invece la volontà di resistenza che abbiamo  visto manifestarsi negli scioperi di marzo e che è più che mai  necessaria per contrastare l’offensiva padronale. 

In questo giudizio negativo comprendiamo anche la mino ranza interna alla Cgil, che ha limitato la propria azione a una  critica puramente passiva dell’operato dei gruppi dirigenti,  rinunciando a qualsiasi tentativo di connettersi a ciò che si  muoveva nelle aziende. Di fronte a una struttura sindacale  che nella maggior parte delle realtà è parsa mettersi lette ralmente in quarantena anziché stringersi il più possibile ai  lavoratori che lottavano per la salute e la sicurezza, l’opposi zione interna non ha avuto alcun ruolo di controtendenza ma  si è completamente adagiata nella passività mostrando tutta  la propria inadeguatezza ed inefficacia. 

Non c’è stato alcun tentativo di connettersi alla spinta  che si esprimeva fra i lavoratori, né per dare indicazioni  sul campo, né per raccoglierla e porla come elemento di  battaglia pubblica nell’organizzazione sindacale. Non si è  neppure cercato di elaborare parole d’ordine e proposte di  iniziativa all’altezza della situazione. 

Nel ristretto gruppo dirigente della minoranza ha  prevalso, una volta di più, uno sterile metodo autorefe renziale, una critica verbosa ma in realtà smobilitante,  incapace di andare oltre una testimonianza passiva. 

Si tratta di limiti strutturali, che derivano dalla completa  sfiducia nei confronti della classe lavoratrice che carat terizza le correnti politiche egemoni nella minoranza, in  questo indistinguibili dalla visione che guida la maggio ranza della Cgil. 

Il fatto che neppure una situazione come quella attuale sia  sufficiente a scuotere questa passività significa che la crisi è  irreversibile, più di qualsiasi errore specifico che possa essere  stato commesso in passato dai dirigenti dell’opposizione in  Cgil. Per quei settori della minoranza che ancora manten 

gono un rapporto vitale coi lavoratori si pone l’esigenza di  un bilancio realistico di quanto quest’area ha, o meglio non  ha, saputo mettere in campo in un momento tanto cruciale. 

Da parte nostra, non rinunciamo alla nostra battaglia.  Proprio perché riconosciamo la forza che i lavoratori hanno  saputo spontaneamente mettere in campo, riteniamo indi spensabile che questa venga connessa a una sistematica batta glia per un cambiamento radicale di linea anche nella Cgil,  battaglia che anche allo scorso congresso abbiamo condotto  con convinzione come parte della mozione alternativa. 

Per questo motivo promuoviamo a partire da questa  assemblea la costituzione di una nuova area sindacale che  si fondi sulla volontà di non rimuovere né tradire quella  volontà di lotta espressa in marzo, e che ad essa si richiami  anche nel nome.  

Al centro di questa iniziativa poniamo la necessità di  una piattaforma radicalmente diversa da quanto emerge dai  gruppi dirigenti. Il punto centrale non deve essere la coge stione e la collaborazione di classe, bensì lo sviluppo del  controllo e del potere dei lavoratori nelle aziende e fuori;  la loro organizzazione democratica nei luoghi di lavoro e  nel sindacato. Su queste basi non ci sottrarremo da conver gere con tutti coloro che capiscono la necessità di condurre  questa battaglia. 

Di fronte al cataclisma della crisi dobbiamo porre al  centro non il sostegno alle imprese, bensì la necessità di  espropriare e nazionalizzare ogni azienda che chiuda,  delocalizzi, licenzi, inquini. Le decine di miliardi di cui si  discute in queste settimane non devono finire in mano a  una classe padronale sempre più parassitaria e irresponsa 

bile, ma devono essere la base per rilanciare queste imprese  sotto il controllo e la gestione dei lavoratori. 

Allo stesso modo lottiamo per riportare nel pubblico i  servizi privatizzati, dalla sanità all’istruzione, per un effet tivo rilancio della sanità (anche di fronte ai rischi di nuove  ondate della pandemia) sotto il controllo democratico del  personale sanitario e degli utenti, per una generale ricon versione dell’economia in direzione dei bisogni sociali e  ambientali della grande maggioranza. Una prospettiva  che diventare realistica solo togliendo il potere economico  e politico alla classe dominante. 

Anche se questa prospettiva va ben al di là della sola  battaglia sindacale, è indispensabile che il sindacato,  organizzazione basilare dei lavoratori e delle lavora trici, ne venga pienamente investito e assuma la parte che  gli compete di fronte ai giganteschi compiti che la crisi  mondiale del sistema capitalista sta ponendo di fronte alla  classe lavoratrice in Italia e a livello internazionale. 

Approvata all’unanimità

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