Fca Pomigliano: la produzione corre, e il contagio?
La pandemia di Covid 19 ormai ha raggiunto ogni luogo con numeri da capogiro. Rispetto all’epidemie del passato, mobilità di uomini e mezzi e l’interconnessione planetaria hanno chiaramente giocato un ruolo moltiplicatore degli effetti. La maggiore interconnessione globale ha di fatto messo a nudo la incapacità delle classi dirigenti mondiale che, dove più e dove meno, sono risultate impreparate a questo evento facilmente prevedibile.
Allo scoppio della prima ondata l’evidenza dell’impreparazione aveva generato una forte indignazione nel mondo operaio, con scioperi diffusi in ogni angolo del mondo. Scioperi che rivendicavano un diritto elementare, non ammalarsi per garantire produzioni non essenziali alla vita di tutti, ma solo profitti dei soliti noti.
In Italia una delle prime risposte operaie c’è stata in Fca ed in particolare nello stabilimento di Pomigliano. A distanza di mesi cosa accade oggi nel sito produttivo campano?
La prima ondata, che in regione era stata poco incisiva e tutto sommato sotto controllo, aveva visto il sito chiudere quasi del tutto per ben due mesi, nei quali si approntava un protocollo tra sindacati e azienda, che faceva da apripista a protocolli in tutti i luoghi di lavoro. Si è rientrati a lavoro con numeri bassissimi di contagi e una presunzione che il protocollo bloccasse il Covid 19 ai cancelli della fabbrica.
Di certo il protocollo aveva dato linee guida generali che aumentavano tra i lavoratori la sensazione di sicurezza (mascherine, gel igienizzante diffuso su tutto il perimetro aziendale, percorsi prestabiliti per evitare assembramenti, controlli della temperatura attraverso termoscanner), ma ben presto tutto è svanito a fronte di una seconda ondata che ha travolto tutto e tutti, senza ovviamente risparmiare i lavoratori. Se ci si rifà solo ai dati di ottobre e novembre si può notare l’impennata di casi (a settembre i casi erano 6 ad ottobre 80 a novembre 86) che ha portato ad ammalarsi circa il 5% dell’intera forza lavoro. Numeri impressionanti che non accennano a diminuire.
Stando alla ricostruzione fatta dall’azienda e dal comitato Covid (rappresentanza sindacale di tutte le sigle), oggi non si può affermare che i contagi avvengano in fabbrica. Tuttavia anche la tesi opposta (ossia che siano tutti importati da fuori) rimane da dimostrare.
Uno dei punti poco chiari è infatti la risalita ai contatti stretti dei contagiati. Molto spesso infatti sono gli stessi contagiati a dichiarare di avere avuto “zero contatti” stretti, sul lavoro. Quando qualche lavoratore ha il dubbio di essere stato a rischio di contatto, viene ascoltato dall’infermeria interna per dirimere le perplessità. Tuttavia risulta molto basso il numero di contatti stretti individuati attraverso questa doppia procedura.
Esiste su questo un evidente conflitto d’interesse in un momento in cui l’azienda sta producendo a ritmi inalterati nonostante la pandemia. Se ogni lavoratore contagiato dichiarasse anche un solo contatto stretto, ne risulterebbe un raddoppio delle persone in quarantena e dunque una estrema difficoltà per l’azienda nel reperire la forza lavoro necessaria.
È di queste settimane, infatti, la richiesta di cercare personale tra i lavoratori che durante tutta la fase Marchionne erano stati esclusi dal cuore dello stabilimento: lavoratori che spesso hanno ridotte capacità lavorative dovute all’usura che gli anni precedenti di catena di montaggio avevano generato, e che oggi svolgevano attività meno gravose per consentirgli di tutelare la loro salute.
Fca si è spinta fino a diminuire i tempi di igienizzazione prevista dal protocollo ad inizio turno (ogni lavoratore ha il diritto-dovere di utilizzare 10 minuti per pulire ed igienizzare la propria postazione) che dagli attuali 10 minuti passano a 5.
Anche le sanificazioni previste dal protocollo risultano poco efficaci dal momento che i tamponi riscontrano la positività a distanza di settimane, a causa dell’incapacità del sistema sanitario nazionale, rendendo di fatto la sanificazione molto postuma all’immediatezza che richiederebbe per la sua efficacia.
Di fatto oggi in Fca si continua a lavorare nonostante una condizione sanitaria nettamente peggiore di quella che determinò il fermo di marzo-aprile a seguito degli scioperi spontanei.
La spiegazione è da trovarsi in due fattori. 1) La decurtazione salariale di mesi di cassa integrazione si è fatta sentire su molti lavoratori, soprattutto considerata la storia degli ultimi 10 anni della classe operaia Fiat, che ha subìto lunghissimi periodi di Cig e di incertezza sul suo futuro. 2) Il ruolo di tutte le organizzazioni sindacali, che continuano a farsi garanti della sicurezza dei protocolli, proponendo tutt’al più qualche aggiustamento, anche in una situazione in cui con ogni evidenza il contagio è fuori controllo. I test rapidi di massa richiesti dai sindacati (e che l’azienda ad oggi rifiuta) sono sicuramente utili, ma più come prevenzione in una situazione relativamente sotto controllo, non certo con il contagio in piena corsa.
In una situazione in cui l’azienda, dopo avere ricevuto per anni incentivi e aiuti, macina produzione (certo non di prima necessità), come minimo andrebbe messa in discussione l’organizzazione del lavoro, spalmando l’orario di lavoro su più turni e passando dalle 8 alle 6 ore a parità di salario, come misura per ridurre l’affollamento sulle linee.
Senza perdere di vista il punto fondamentale: nella scelta fra due mali, fra il rischio sanitario e il rischio economico, devono essere i lavoratori a poter decidere, avendo in mano tutti gli strumenti di conoscenza e controllo, dalla sorveglianza sui contagi alle effettive condizioni nei reparti e in tutti gli aspetti della vita lavorativa. È questa la lezione degli scioperi di marzo, che non dobbiamo dimenticare.