Sanità: dopo tante chiacchiere quali fatti?
Lo svuotamento di risorse di cui è stato bersaglio il Sistema Sanitario Nazionale negli ultimi dieci anni, si è reso più che mai evidente nella sua tragica portata a causa dell’impatto che la pandemia ha avuto sulla tenuta dei servizi.
Dal 2012 le manovre di bilancio varate dai governi che si sono susseguiti hanno sottratto al SSN 37 miliardi di euro in termini di mancati investimenti e aumenti di spesa. Vari esponenti dei governi che hanno giocato un ruolo in questa macelleria sociale, hanno tentato maldestramente di dimostrare che non si poteva parlare di tagli, in quanto negli ultimi vent’anni la spesa sanitaria, in termini assoluti, è sempre cresciuta. Un’evidente manipolazione se si considera che la spesa avrebbe dovuto aumentare per l’adeguamento all’inflazione e ai cambiamenti nella composizione demografica che ha visto, dagli anni 2000 ad oggi, un aumento di un terzo degli over 65. Di fatto, invece, la spesa destinata al servizio sanitario pubblico è cresciuta meno dell’inflazione, quindi si è ridotta in termini relativi passando, nel periodo dal 2001 al 2019, dal 7% al 6,6% del PIL. Per dare la misura, in Francia e Germania la percentuale di spesa sanitaria è, rispettivamente, pari all’11,5% e all’11,2% del PIL. I “risparmi” si sono concretizzati in mancate nuove assunzioni di personale (ad oggi abbiamo una platea di medici tra i più anziani d’Europa), taglio di posti letto, mancanza di forniture, svuotamento della medicina di territorio.
La pandemia ha riportato al centro del dibattito l’importanza della sanità pubblica, che ha giocato un ruolo cruciale nel fronteggiare l’emergenza. Eppure, a distanza di quasi un anno dall’inizio dell’emergenza, la situazione nelle strutture sanitarie è ancora critica. Diversi operatori denunciano scarsità e inadeguatezza dei dpi, ritardi nell’attuazione delle più elementari procedure di sicurezza come la designazione di percorsi dedicati di accesso alle strutture, enormi criticità nelle procedure di contact tracing, carenza di personale, di farmaci e di forniture di vario tipo.
In tutti questi mesi si è fatto un gran parlare della sanità pubblica, della necessità di un suo rilancio, di un’inversione di rotta rispetto alle politiche degli ultimi dieci anni, della piaga del precariato, del sottorganico, della necessità di investire sulla medicina di prossimità, sul territorio, sulla prevenzione.
Il dibattito si è incentrato sulla questione dei fondi, dal Recovery Fund al MES, e i sindacati, la CGIL in primis, dall’inizio della pandemia ad oggi invece di occuparsi di organizzare i lavoratori della sanità, di intercettare la rabbia e il malcontento di migliaia di operatori vessati da turni estenuanti, condizioni di lavoro estreme, mancanza di sicurezza, hanno strizzato l’occhio al governo, giocando un ruolo di freno nella possibilità che quella rabbia diventasse mobilitazione. Non è un caso che durante l’incontro tra governo e parti sociali per la discussione sul Recovery Plan Conte si sia rivolto ai sindacati ringraziandoli per il contributo che hanno dato al paese in questi mesi difficili, rinunciando alle loro legittime rivendicazioni.
Ma a fronte di tanto parlare, cosa si sta facendo realmente per rilanciare la sanità pubblica?
Legge di bilancio: assunzioni all’insegna della precarietà
Dal 2009 in Italia il numero dei lavoratori della sanità pubblica è in costante calo, negli ultimi dieci anni diverse regioni hanno attuato dei piani di rientro della spesa sanitaria che si sono tradotti in tagli alla spesa per il personale (Rapporto n° 6 del MEF “Monitoraggio della spesa sanitaria, luglio 2019”), dal 2009 ad oggi si registrano 44.000 mancate nuove assunzioni (-6,4% rispetto al 2009) e il precariato è in aumento (42 mila precari nel 2018 contro i 31 mila del 2013, fonte Conto Annuale MEF-RGS e Archivio Conto Annuale MEF – Ragioneria generale dello stato). Tra i lavoratori del comparto in particolare, i contratti di lavoro flessibile sono cresciuti del 5,3% dal 2009 e in un caso su cinque con prestazioni in somministrazione (fonte Il Sole 24 ore).
Chi si aspettava che l’emergenza sanitaria, con il dibattito che ha scatenato sul problema del sottorganico e del precariato, sarebbe stato lo stimolo per tagliare nettamente un certo tipo di politiche, si sbagliava di grosso.
La Legge di Bilancio prevede l’assunzione di medici e infermieri nel 2021, disponendo una proroga di quanto già stabilito dal decreto Cura Italia per l’emergenza Covid. In buona sostanza si possono prorogare per un altro anno gli incarichi a tempo determinato conferiti con il Cura Italia e si può assumere nuovo personale precario, a tempo determinato, con incarichi di lavoro autonomo, di collaborazione coordinata e continuativa, di durata non superiore a 6 mesi, prorogabili sino al 31 dicembre 2021. Non poteva mancare naturalmente la possibilità di richiamare in servizio medici e operatori del comparto in pensione e di utilizzare gli specializzandi.
Una nuova ondata di precari verrà dunque immessa nei servizi. Per bilanciare questa scelta scellerata, tuttavia, il Ministro della Salute Speranza offre il “contentino” con l’emendamento sulla proroga della Legge Madia, che da la possibilità di avviare procedure di stabilizzazione per i precari storici.
Recovery plan e MES: risorse insufficienti e morsa del debito
Tra scontri e polemiche all’interno della maggioranza è stato approvato dal governo il Recovery Plan, il programma di investimenti e interventi che l’Italia deve presentare alla Commissione Europea per accedere ai fondi stanziati dall’UE nell’ambito del programma Next Generation EU.
Italia Viva non ha votato il Recovery Plan vincolando il voto all’adesione al MES sanitario (la linea di credito da 36 miliardi prevista dal MES per la sanità), provocando uno scontro nella maggioranza. Lo scontro sul MES coinvolge anche il ministro della salute Speranza, da sempre favorevole. Quello che non viene detto è che utilizzare i fondi del MES produrre ulteriore debito (il debito italiano è cresciuto di oltre 140 miliardi di euro da novembre 2019 a novembre 2020), che tradotto significa ulteriore subalternità alle richeste dell’Europa, ossia future nuove politiche di austerità. In buona sostanza il MES porrebbe le condizioni per una futura nuova fase di tagli e macelleria sociale.
Riguardo il Recovery Plan del resto, nonstante l’aumento di oltre 10 miliardi dei fondi destinati alla salute (da 9 a 19,72 miliardi) le risorse restano insufficienti se paragonate all’entità dei tagli subiti dal settore negli ultimi dieci anni, lo stesso Speranza, ai primi di settembre 2020, aveva annunciato venti progetti, il cui valore ammontava a 68 miliardi. Oltre a ciò, i fondi arriveranno con estremo ritardo rispetto alle esigenze e non incideranno sulle assunzioni.
Nonostante le tante chiacchiere, dunque, da lavoratori della sanità non ci aspettiamo un futuro roseo. Soltanto una grande mobilitazione del settore che unisca le istanze di tutti i lavoratori della sanità potrà giocare un ruolo cruciale nell’invertire questa rotta. Dobbiamo mobilitarci sulla base di una piattaforma chiare e radicale che preveda:
– Significativo incremento dei fondi destinati al SSN a partire dalla immediata restituzione di 37 miliardi di euro;
– Il controllo da parte dei lavoratori e di comitati di utenti della gestione della sanità, specie in tema di sicurezza;
– La ripubblicizzazione della sanità privata e del settore socio sanitario per rompere con le strutture sanitarie private anche se convenzionate, perché sottraggono fondi al pubblico. Esproprio delle strutture sanitarie private e riassorbimento dei lavoratori presso il SSN;
– Un massiccio piano di assunzioni e stabilizzazione di tutti i precari;
– L’adeguamento delle retribuzioni con il recupero della perdita salariale legata ai blocchi contrattuali e l’incremento e la stabilizzazione delle quote previste dalle voci del salario variabile. I salari devono giungere al livello della media dei salari europei più alti;
– Lo sviluppo della rete sanitaria territoriale;