INTESA SAN PAOLO SBATTE LA PORTA DELL’ABI

INTESA SAN PAOLO SBATTE LA PORTA DELL’ABI

Nei giorni scorsi è circolata la notizia della decisione, da parte di Intesa San Paolo, di uscire dal CASL ABI (il comitato delle relazioni sindacali fra la parte padronale e le organizzazioni sindacali del Credito).

La decisione, seppur improvvisa, era da tempo annunciata e rappresenta un’importante svolta all’interno del mondo bancario.

Il Gruppo Intesa Sanpaolo è il maggiore gruppo bancario in Italia, con 13,5 milioni di clienti e circa 4.700 filiali, ed uno dei principali dell’area euro, dove compare fra i primi venti; nel 2021 ha conseguito un fatturato di 20,79 miliardi di euro.

La banca negli ultimi venti anni, tramite una serie infinita di fusioni, di cui ricordiamo, fra le più importanti in ordine cronologico, la fusione Intesa e San Paolo nel 2007, l’acquisto della Cassa di Risparmio di Firenze nel 2010, l’acquisto ad un euro di Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca nel 2017 e la fusione con UBI nel 2020, è diventata il principale colosso finanziario italiano.

È evidente che, con tali dimensioni, le ristrettezze di un contratto nazionale che comprende al suo interno ancora realtà territoriali o di piccole dimensioni, iniziassero ad andare strette al grande gruppo bancario; da qui la decisione, sul modello già testato con successo dalla FIAT di Marchionne (che nel gennaio del 2012 uscì da Confindustria), di iniziare il distacco dall’associazione padronale (ABI) colpevole di dover assecondare le necessità di tutto il settore: non è poi un caso che tale scelta sia stata effettuata proprio nel momento in cui si sta ridiscutendo il CCNL del Credito: evidentemente la banca ha suoi precisi interessi e non vuole mediatori per ottenerli.

Intesa San Paolo, infatti, presenzierà in maniera autonoma al tavolo dove si discuterà del rinnovo del contratto, conducendo una trattativa parallela con i sindacati per il riconoscimento di un contratto ad aziendam che non la vincolerà alle regole valide per tutte le altre banche.

Una prova di forza che se, da un lato, mostra la prepotenza padronale dall’altro evidenzia la debolezza intrinseca delle associazioni padronali che, da Confindustria all’ABI, hanno una grande difficoltà a mediare gli interessi dei loro consociati, trovandosi sempre di più a rappresentare grandi gruppi internazionali e piccoli operatori nazionali, se non addirittura regionali.

Si è arrivati a questo punto sia per la pavidità e la debolezza dell’ABI, che negli anni scorsi è praticamente divenuta una specie di filiale di Intesa San Paolo e di Unicredit, sia per la scarsa lungimiranza dei sindacati che non hanno saputo vedere nel forte accentramento finanziario una minaccia alla stabilità del CCNL e agli interessi dei lavoratori.

L’atteggiamento unilaterale della banca si è espresso sin da dicembre quando ha applicato la settimana corta senza l’accordo con i sindacati nel settore bancario. Una decisione unilaterale con la quale viene sì ridotto il numero di giorni lavorati (quattro) ma a fronte di un orario di lavoro immutato.

Se andiamo ad approfondire il tema scopriamo che la settimana corta è, in via sperimentale, appannaggio solo delle Direzioni Centrali e di una manciata di filiali (200) a cui viene concesso addirittura un giorno di smart working al mese contro i 140 all’anno del personale non in filiale; inoltre sia l’accoglimento della richiesta che la gestione del tempo restano nel pieno controllo della sola parte padronale che, portandosi a casa anche la flessibilità di orario in entrata dalle 7:00 alle 10:00, sta evidentemente pianificando l’aumento dello sfruttamento del lavoratore: si arriverà, senza alcun dubbio, ad una settimana corta in cui si lavorerà di più!

È responsabilità dei sindacati aver avallato fin qui ogni iniziativa aziendale atta a scardinare il CCNL: negli anni, infatti, i sindacati hanno accettato altre particolarità della banca come il contratto ibrido per cui una fascia di lavoratori sono per alcuni giorni a partita IVA e per alcuni altri dipendenti della banca. Vanno ad aggiungersi a questo quadro gli infiniti esodi ed esuberi che hanno cancellato migliaia di posti di lavoro: tutti accordi sottoscritti e rivendicati dai sindacati con successo!

Ironia della sorte, la banca ha disdettato l’accordo sul contratto ibrido proprio nel momento in cui avrebbe dovuto trasformare le partite IVA in dipendenti fissi, dimostrando quanto fosse realmente interessata alla stabilità dei lavoratori: un ulteriore schiaffo in faccia ai sindacati, a partire dalla Fisac CGIL, che avevano sempre avallato tutti i desiderata dell’azienda.

La condiscendenza di sindacati e ABI ha spinto la dirigenza di Intesa San Paolo a gettare il cuore oltre l’ostacolo: al rifiuto di non sottoscrivere la settimana corta la banca ha proceduto in maniera unilaterale ad applicarla ai suoi dipendenti e, rendendosi conto che non avrebbe trovato spazio all’interno del prossimo CCNL, ad agire in autonomia.

Lo scenario che si apre è ovviamente quello di uno spettacolo già visto in FIAT: la creazione di un nuovo contratto per la sola Intesa San Paolo che verrà siglato anche con i sindacati, nonostante i vari mal di pancia.

L’appello di questi giorni della neoeletta segretaria nazionale della Fisac, Susy Esposito, e di Maurizio Landini di conservare la centralità del CCNL è simile a chi chiude la porta della stalla quando le vacche sono già scappate!

I diritti dei lavoratori, in uno scenario di forte concentrazione capitalistica e di crisi, si difendono con l’organizzazione dei lavoratori e con le lotte per assicurarsi e consolidare contratti degni di questo nome.

Il comparto bancario vede le banche, con l’incremento dei tassi e l’aumento dei mutui variabili, aumentare i loro profitti mentre continuano a mandare fuori personale e a ridurre i costi e, a tal proposito, vedremo se nel rinnovo contrattuale i sindacati avranno il coraggio di chiedere quantomeno un aumento che faccia recuperare l’inflazione di questi due anni (circa 550€!).

La realtà è che, anche in questo settore, i lavoratori soffrono sempre di più per lo stress da lavoro correlato, depressioni o malattie riconducibili alla precarietà e pressioni che ricevono ogni giorno.

Il rinnovo del CCNL dovrebbe essere la leva per avviare una mobilitazione che ponga al centro la questione dei profitti miliardari delle banche e la gestione del credito, con la prospettiva di cementare sempre di più l’unità dei lavoratori con rivendicazioni più ampie e radicali:

  • no ai licenziamenti e alle continue chiusure di filiali;
  • riduzione dell’orario di lavoro;
  • una nuova scala mobile;
  • una nuova organizzazione del lavoro discussa con le rappresentanze sindacali.

Il fatto è che ad oggi nessuna organizzazione sindacale, a partire dalla CGIL, è in grado di dare rappresentanza a tali istanze. Come Giornate di marzo siamo e saremo in prima fila per porre rimedio a questa grave mancanza di iniziativa sindacale.

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