L’anno nero dei fondi pensione – smentita la propaganda sulle pensioni integrative
È stata pubblicata qualche settimana fa l’ultima relazione semestrale della Commissione di Vigilanza sui Fondi Pensione (COVIP), l’ente che esercita la “vigilanza prudenziale sulle forme pensionistiche complementari”. Contiene diverse sorprese.
Come noto la riforma del 2005, entrata in vigore nel 2007, ha introdotto il meccanismo per cui, in mancanza di espressa indicazione contraria da parte del lavoratore, da effettuarsi al momento dell’assunzione (“silenzio-assenso”), la liquidazione viene automaticamente destinata a fondi pensione e così investita sui mercati finanziari.
All’epoca fummo tra i pochi a mettere in guardia dai rischi per i lavoratori. A sentire tutte le altre campane – comprese purtroppo quelle provenienti dai dirigenti sindacali – le forme pensionistiche complementari costituivano invece un’occasione per i lavoratori per mettere a frutto la propria liquidazione e ottenere rendimenti più elevati rispetto a quelli previsti dalla legge per il TFR lasciato in azienda.
Quest’ultimo si rivaluta annualmente di un tasso fisso dell’1,5% e di un ulteriore tasso variabile pari al 75% dell’inflazione: dunque ha un rendimento davvero garantito. Al contrario, nonostante tutte le rassicurazioni degli istituti finanziari, il rendimento dei fondi pensione di qualunque tipo (negoziali, aperti o assicurativi) è legato esclusivamente all’andamento dei mercati finanziari, e nulla impedisce che possa essere negativo.
Proprio questo è accaduto nell’ultimo anno, come rivela la COVIP: “Nel 2022 i risultati delle forme complementari hanno risentito del calo dei corsi dei titoli azionari e del rialzo dei tassi di interesse nominali […]. I rendimenti netti sono pertanto risultati negativi e pari, in media tra tutti i comparti, a –9,8 e a –10,7 per cento, rispettivamente, per fondi negoziali e fondi aperti”. Rendimenti ancora peggiori hanno avuto i fondi di natura assicurativa (PIP), in calo dell’11,5%.
La relazione fornisce anche il dato calcolato sugli ultimi dieci anni: perfino su un periodo così lungo, il rendimento medio dei fondi pensione non supera quello del TFR lasciato in azienda. Dunque è bastato un solo anno di “oscillazioni nei mercati” e di inflazione maggiore per azzerare tutti i presunti vantaggi dei fondi pensione. Considerato che turbolenze nei mercati e inflazione continueranno anche nel 2023, è presumibile che numeri simili si ripeteranno nuovamente.
È poi da notare, da un lato, che anche i cosiddetti “fondi garantiti”, ossia quelli che teoricamente dovrebbero mettere il lavoratore al riparo da eventuali perdite, hanno avuto nell’ultimo anno un rendimento fortemente negativo; dall’altro, che non c’è alcuna sostanziale differenza tra i fondi negoziali promossi dai sindacati e quelli aperti.
Quando, nel 2007, abbiamo lanciato una campagna contro il conferimento del TFR ai fondi, siamo stati facili profeti. Nel frattempo la quota di dipendenti che ha aderito a forme di previdenza complementare, anche per via del “silenzio-assenso”, è quasi triplicato.
Come spiegavamo allora, oltre che un gigantesco regalo agli istituti finanziari, il trasferimento del TFR alle forme pensionistiche complementari è anche funzionale allo smantellamento del sistema previdenziale pubblico: si giustifica il taglio delle pensioni pubbliche con i presunti maggiori rendimenti delle pensioni private. Ora che questa favola è stata spazzata via dalla dura realtà, si conferma più necessaria che mai la lotta per difendere il diritto a pensioni pubbliche dignitose.