Resoconto della commissione sindacale settore scuola/università/servizi educativi
Da circa un paio di mesi nel settore dell’istruzione sono state sospese le lezioni e, in generale, tutte le attività didattiche e educative in presenza. Fin da subito, ministero, presidi di scuole e facoltà hanno esercitato una pressione su maestri e professori per avviare da remoto quella che è sempre stata l’attività in presenza. Simultaneamente, senza attività in presenza, dopo una prima conversione dei servizi scolastici in servizi domiciliari, gli educatori dipendenti da cooperative si sono trovati senza stipendio. Buona parte dei servizi a gestione comunale per la disabilità, l’infanzia e l’educazione legati alla scuola sono soggetti ad appalto, per questi lavoratori è già la normalità non venire retribuiti nel caso in cui il minore assistito sia assente da scuola, questa assurda prassi è stata portata all’estremo.
L’assenza di qualsiasi regolamentazione sul piano contrattuale, l’inconsistente azione della burocrazia sindacale nel tutelare i lavoratori, la privatizzazione dei servizi educativi, l’autonomia scolastica e universitaria portata avanti negli ultimi decenni, sono le condizioni che hanno creato una vera e propria giungla.
Mentre gli educatori delle cooperative sono ancora in attesa del FIS e nel mese di marzo sono stati retribuiti solo con le poche decine di euro provenienti da ore svolte a distanza, gli insegnanti dipendenti pubblici hanno visto un aumento dei tempi di lavoro e degli aspetti burocratici, una estenuante perenne connessione e una costante reperibilità.
Si tratta di una situazione che sta portando all’esasperazione economica gli educatori e uno stravolgimento delle modalità di lavoro per i docenti, attuato oltretutto in un quadro di mancato rinnovo contrattuale; gli stipendi dei docenti italiani rimangono ben sotto la media dei colleghi europei.
In questo contesto, diverse realtà del comparto hanno visto svolte autoritarie da parte di presidi o dirigenti: convinti di poter assolvere al meglio il loro ruolo di manager hanno imposto le modalità con cui articolare il lavoro agile, arrivando a stabilire scansione e orari per le videolezioni (giungendo ad equipararle alle ore di lezione in classe).
La totale carenza di risorse economiche e tecnologiche ha scaricato sulle spalle di insegnanti e studenti il reperimento della tecnologia necessaria per garantire una tale didattica a distanza. Lo stanziamento di 85 milioni da parte del governo per piattaforme e strumenti digitali, connettività di rete, formazione dei docenti si è rivelato estremamente tardivo e del tutto inadeguato. Scuole e università sono ricorse a “donazioni” di aziende o realtà produttive territoriali e all’utilizzo di piattaforme on line private per organizzare l’attività da remoto. Ancora una volta è emersa l’autonomia come strumento per disinvestire nell’istruzione subordinandola sempre più al controllo e agli interessi privati. Impegno e professionalità di docenti, educatori e maestri, così come i loro sistematici sforzi orientati all’inclusione si scontrano con mancanza di mezzi e politiche di gestione aziendale; nell’emergenza sanitaria le disparità nell’accesso all’istruzione risultano enormemente amplificate.
Nonostante la stragrande maggioranza dei lavoratori del comparto, in maniera del tutto naturale e spontanea, si sia attivata fin da subito per non interrompere la relazione educativa con bambini e studenti, la consapevolezza che qualsiasi modalità di didattica a distanza non possa sostituire l’attività in presenza è un elemento che si sta consolidando nella coscienza collettiva: disparità, dubbia efficacia, esclusione dei soggetti più fragili, aumento dei ritmi di lavoro, iperconnessione, sono aspetti impossibili da camuffare. Un eventuale affondo ideologico da parte del governo, finalizzato ad inserirla come elemento strutturale in
ambito educativo, si scontrerebbe con una rabbia e una resistenza diffusa. Persino la burocrazia sindacale ne è ben consapevole e pone avvertimenti al riguardo.
Parallelamente, con la fine della quarantena e la ripresa delle attività produttive, sono destinate ad esplodere le difficoltà dei lavoratori con figli piccoli nel conciliare lavoro e seguito della prole. Questo problema non riguarda esclusivamente il periodo attuale, ma è destinato a perdurare durante l’estate. Le pressioni di Confindustria per una rapida apertura dei centri estivi devono essere rispedite al mittente, nessun bambino e nessun educatore deve mettere a rischio la propria salute.
Come si può facilmente intuire, del tutto insufficienti sono i 15 giorni di congedo parentale concessi dal governo come alternativa all’umiliante bonus babysitter di 600 euro. SI tratta di un ulteriore attacco alle condizioni di vita della classe lavoratrice, obbligata al lavoro e impossibilitata a prendersi cura dei figli in
una situazione di rischio sanitario. Maestri e educatori vengano strumentalmente contrapposti alle famiglie di lavoratori: il tentativo è sempre quello di scaricare sulla classe le conseguenze dell’emergenza. L’unità deve invece rimanere elemento imprescindibile: fino a quando non sussisteranno le condizioni sanitarie per un rientro in sicurezza nei nidi, nelle scuole e nei centri estivi, i genitori devono poter fruire del congedo parentale. Questa rivendicazione è oltretutto necessaria per ribadire che Il ruolo educativo non può essere confuso con il babysitteraggio.
Secondo le statistiche, i maggiori rischi sanitari legati alla diffusione del Covid-19 riguardano le fasce di popolazione più anziane. Negli istituti scolastici la metà dei lavoratori è over 50 e una fetta tutt’altro che marginale ha almeno sessant’anni. Una riapertura delle scuole in autunno, senza vaccino e con il virus ancora in circolazione, porrebbe questa fascia ad una preoccupante esposizione. E’necessaria la pianificazione di un piano di pensionamenti straordinario finalizzato ad evitare una situazione che potrebbe avere sviluppi drammatici. Analogo ragionamento vale anche per le università. In aggiunta, l’apertura degli atenei sul territorio nazionale prima che venga messo a disposizione il vaccino potrebbe avere degli effetti catastrofici in termini di diffusione del virus. È infatti noto che nelle grandi città italiane (Milano, Bologna, Roma e Napoli) l’altissima presenza di studenti fuori sede potrebbe comportare una nuova ondata di contagi con inevitabili serie ripercussioni sia nelle città universitarie che nei paesi di provenienza degli studenti.
Altrettanto indispensabile è stabilizzare quell’esercito di precari della scuola assunti ogni anno in autunno per vedersi licenziati a giugno. Concorsi, graduatorie ad esaurimento e di istituto, messe a disposizione, sono i diversi canali utilizzati dal ministero per tener viva una assurda divisione del personale con l’obiettivo di ridurre al minimo le assunzioni a tempo indeterminato. Non sarà l’annunciato piano straordinario a cambiare la situazione: il ritornello relativo all’imminente iter concorsuale finalizzato all’immissione in ruolo di 60 mila insegnanti ha il compito di mascherare (ai non addetti ai lavori) la volontà politica di lasciare tutto in queste condizioni.
Al di là della fattibilità di un tale iter in un contesto di emergenza, nessun percorso analogo negli anni passati ha portato all’effettiva stabilizzazione dei numeri annunciati. Ma anche se andasse a compimento, nella migliore delle ipotesi si tratterebbe di una copertura molto parziale rispetto al fabbisogno. Ad oggi risultano presentate 35 mila domande di pensionamento per l’estate 2020, a questo numero va aggiunto una quota di oltre 100 mila posti (stimati per difetto) attualmente vacanti. Il totale si aggira attorno ai 150 mila posti. Prendendo in considerazione queste cifre, appare evidente come l’unico strada per risolvere il problema sia l’immediata stabilizzazione su tutti i posti vacanti del personale precario con almeno tre anni di servizio e l’avvio di un percorso di formazione per i neoimmessi da svolgersi in orario di lavoro.
Anche in ambito universitario anni di tagli sono stati accompagnati da una sistematica precarizzazione. Nel campo della ricerca è il contratto a termine la tipologia contrattuale che regna incontrastata. In questi mesi abbiamo assistito all’esaltazione sui media della professionalità e della bravura dei ricercatori italiani, le loro condizioni di lavoro vengono però lasciate sullo sfondo: decine di migliaia di persone sottopagate svolgono la loro attività di ricerca nelle università utilizzando la continua proroga di contratti a tempo determinato. I dati che restituiscono la concreta dimensione del problema parlano da soli: a livello nazionale su 48mila professori associati sono più di 70mila i precari del mondo della ricerca. Si tratta di giovani con contratti a breve termine, generalmente di un anno e in ogni caso mai più lunghi di tre, che spesso nei mesi di attesa per la stipula di un nuovo contratto sono costretti a continuare a lavorare senza avere un salario. Non è una esagerazione affermare che oggi il sistema universitario si basa proprio su di loro.
Tutti i lavoratori del comparto, le famiglie e gli studenti devono avere la possibilità di confrontarsi e di poter decidere, in base all’evoluzione della situazione emergenziale, la ripresa delle attività nel mondo dell’istruzione. Per questo sono necessari comitati territoriali a tutela della sicurezza sanitaria in cui poter sviluppare elementi rivendicativi ed esercitare un controllo sulla riapertura di scuole, università, strutture educative.
La piattaforma che noi rivendichiamo parte dai seguenti punti
1) No alla didattica a distanza come elemento strutturale in ambito educativo. Superata la fase di emergenza sanitaria, la didattica deve attuarsi esclusivamente nel proprio ambito naturale: scuole e università pubbliche
2) Nessuna riapertura anticipata di nidi, materne, centri estivi, servizi educativi. Congedo parentale, retribuito al 100% ed esteso ad ogni giorno lavorativo, per le famiglie con figli al di sotto dei 12 anni
3) No all’autonomia scolastica e universitaria. Nessun finanziamento dei privati all’interno della pubblica istruzione, nessuna richiesta di contributi delle famiglie alle spese scolastiche, nessuna retta universitaria. La gratuità della scuola pubblica e dell’università, così come la strumentazione tecnologica necessaria a studenti e insegnanti, deve essere garantita dallo Stato
4) Completa reinternalizzazione dei servizi educativi nel settore pubblico e piena retribuzione per tutti gli operatori sociali, i comuni devono pagare i servizi già a bilancio. Completo riconoscimento del lavoro non frontale
5) Raddoppio dei fondi destinati all’istruzione e nessun finanziamento alle scuole private. I. Avvio di un piano di edilizia scolastica e universitaria, aule e laboratori devono garantire la più totale sicurezza ed essere tecnologicamente attrezzati. Deve essere ridotto il numero di alunni per classe, numero che non deve mai superare le 20 unità
II. Riapertura di tutti i servizi essenziali che riguardano il diritto allo studio e al lavoro nelle università. Adeguati finanziamenti per le mense, per le biblioteche e per le residenze universitarie, questi servizi devono essere garantiti sulla base della necessità e sotto il sistematico controllo di lavoratori e studenti universitari.
6) Rinnovo del contratto per l’intero comparto prevedendo in ogni ambito
I. Piano di pensionamenti straordinario per la fascia più anziana di lavoratori II. Sblocco del turnover dei pensionamenti negli atenei: per ogni docente pensionato venga assunto un precario della ricerca
III. Stabilizzazione su tutti i posti vacanti nelle scuole del personale precario; stabilizzazione dei precari delle università e proroga di tutti i contratti in scadenza nel periodo dell’emergenza sanitaria
IV. Completo recupero del potere d’acquisto: per ogni figura professionale l‘aumento salariale deve garantire stipendi non al di sotto della media dei livelli salariali europei più alti della categoria
V. Pari trattamento economico e diritti per il personale scolastico e quello educativo