Anche la Cassazione contro il lavoro povero
È un paradosso, ma è una realtà di fatto che il terreno più avanzato dello scontro sul salario minimo oggi siano le aule dei tribunali. Oggetto del contendere è la retribuzione prevista dal CCNL Servizi fiduciari, a suo tempo sottoscritto da CGIL e CISL (e recentemente rinnovato, con aumenti irrisori, anche da UIL), che prevede una paga di 930 Euro lordi al mese per un operaio specializzato con orario a tempo pieno.
Dopo le prime sentenze dei giudici del lavoro che l’hanno giudicata illegittima e l’intervento a gamba tesa della Procura di Milano che ha commissariato imprese che ne abusavano, come Sicuritalia Servizi Fiduciari e Mondialpol, contestando loro il reato di sfruttamento, è ora la Corte di Cassazione a portare nuovi argomenti a favore della necessità di un salario che sia realmente in grado di garantire ai lavoratori un’esistenza libera e dignitosa.
Si tratta di quattro sentenze “gemelle”, pubblicate all’inizio di ottobre, che fanno piazza pulita di gran parte degli argomenti utilizzati finora dal lato padronale (e condivisi da alcune delle sentenze che ora sono state bocciate dalla Cassazione).
Il principale di questi argomenti era che, essendo state previste da un CCNL firmato dai sindacati maggiormente rappresentativi, le retribuzioni stabilite dal contratto Servizi fiduciari fossero automaticamente sufficienti e adeguate al tipo di attività.
Un’equazione decisamente smentita dalla Corte, che conferma la necessità di verificare in concreto se la retribuzione non sia davvero inferiore al “minimo costituzionale”, sotto il quale è vietato scendere. Un rischio tanto più reale negli ultimi anni, da “quando, venendo meno alla sua storica funzione, la stessa contrattazione collettiva sottopone la determinazione del salario al meccanismo della concorrenza invece di contrastare forme di competizione salariale al ribasso.”
Una critica nemmeno tanto velata alle organizzazioni sindacali che hanno tradito la loro funzione di tutela dei diritti dei lavoratori, trasformandosi troppo spesso in meri portavoce degli interessi della controparte padronale.
Qual è questo minimo? La Corte non può dirlo con esattezza, perché non è la sua funzione. Indica però una serie di indicatori esterni da confrontare con il salario percepito, ovviamente al netto di tasse e contributi ed escludendo lo straordinario, il cui svolgimento massiccio al contrario è proprio un indice dell’insufficienza della retribuzione ordinaria.
Il principale di questi indicatori, contrariamente a quanto affermato da alcune delle sentenze che avevano respinto le domande dei lavoratori, è la soglia di povertà ISTAT (che nel Nord Italia si aggira intorno agli 800 Euro mensili). Ma la Cassazione, nel bocciare quelle sentenze, precisa che si tratta di un parametro utile solo nel senso che costituisce “una soglia minima invalicabile. Ma di per sé non è indicativo del raggiungimento del livello del salario minimo costituzionale, che deve essere proiettato ad una vita libera e dignitosa e non solo non povera.”
In altre parole, perché il salario possa considerarsi adeguato è certamente necessario che sia superiore alla soglia di povertà, ma non è sufficiente: dunque deve essere significativamente superiore.
Un ulteriore parametro secondo la Cassazione è quello contenuto nella Direttiva dello scorso ottobre sul salario minimo che, pur non essendo stata recepita nel nostro ordinamento, fornisce altri indicatori certamente utilizzabili dal giudice, tra cui “il rapporto tra il salario minimo lordo e il 60% del salario lordo mediano e il rapporto tra il salario minimo lordo e il 50% del salario lordo medio“, che in Italia si collocava nel 2021 (ultima rilevazione ISTAT disponibile) intorno al valore di 8,41 Euro orari.
Inoltre la retribuzione deve anche “rispettare l’altro profilo della proporzionalità con la quantità e qualità del lavoro svolto.” In questo senso non solo è consentito ma è necessario e doveroso operare un confronto tra la retribuzione che si assume non proporzionata e quella prevista per mansioni analoghe dai contratti collettivi dei settori affini.
Nel caso del CCNL Servizi fiduciari, questo confronto porta a esiti clamorosi, con differenze anche superiori ai 300€ al mese per lo svolgimento delle stesse identiche mansioni: non a caso buona parte del contenzioso, compreso quello esaminato dalla Suprema Corte riguarda casi in cui “in virtù dell’applicazione agli stessi lavoratori, da un cambio di appalto all’altro, di CCNL sempre diversi e peggiorativi – sottoscritti anche dalle OO.SS. maggiormente rappresentative – si è prodotto il risultato della retribuzione a parità di lavoro”: una “concorrenza salariale al ribasso” responsabile della tragedia sempre più diffusa del “lavoro povero”, che deve essere contrastata per garantire invece “il valore della dignità del lavoro”.
Nonostante le dichiarazioni sbandierate dalle parti, i miserabili aumenti previsti dal rinnovo del CCNL – ora denominato “Servizi di sicurezza” – dello scorso 30 maggio non risolvono affatto il problema: sono appena 50 Euro da giugno (a cui vanno sottratti però i 20 Euro di “copertura economica” che non saranno più erogati), seguiti da altri 25 Euro tra un anno, altri 25 Euro da giugno 2025, 20 Euro da dicembre 2025 e gli ultimi 20 Euro da aprile 2026: verosimilmente assai meno dell’inflazione del prossimo triennio.
Adesso la palla torna alle Corti d’Appello e ai Tribunali, che dovranno applicare questi principi.
C’è da sperare che le pronunce della Corte di Cassazione servano non solo a indirizzare nel verso giusto il contenzioso giudiziale, senza dimenticare però che questo contenzioso può sì costituire uno strumento prezioso, ma certo non può sostituire la lotta di classe.
Gli stessi parametri indicati in queste ultime, ottime sentenze sono comunque insufficienti a garantire un tenore di vita dignitoso ai lavoratori e alle loro famiglie, specialmente di fronte al dilagare dell’inflazione degli ultimi anni, così come insufficienti sono i parametri fissati dalla direttiva europea e le proposte di legge sbandierate dall’opposizione parlamentare al governo.
La prima necessità quindi è quella di ampliare il campo di battaglia, coinvolgendo tutti i milioni di lavoratori che oggi ricevono salari da fame e spostando il conflitto dalle aule dei tribunali ai luoghi di lavoro e alle piazze.