La “rivolta sociale” si perde nel voto

La “rivolta sociale” si perde nel voto

“Il voto è la nostra rivolta”. Con questo slogan la CGIL ha avviato, il 12-13 febbraio a Bologna, in un’assemblea generale dei suoi gruppi dirigenti, la campagna elettorale per i cinque referendum approvati dalla Corte Costituzionale, sui quali si voterà questa primavera.

Uno slogan che significa mettere in soffitta il conflitto di classe.

Lo sciopero generale del 29 novembre scorso, pur nella solita preparazione routinaria della direzione sindacale, aveva indiscutibilmente dato il segnale di un fermento e una disponibilità alla lotta tra i lavoratori. La parola d’ordine della “rivolta sociale” aveva destato consenso, tanto più in quanto il governo aveva iniziato a gridare allo scandalo contro la CGIL. “Che rivolta sociale sia!” era un sentimento palpabile in molte piazze piene. Quello sciopero era stato preceduto da altri riusciti scioperi di categoria, quello del settore auto e quello dei trasporti pubblici locali che aveva, effettivamente, bloccato il paese.

Ma dopo la riuscita di quegli scioperi c’è l’ennesimo ritorno nei ranghi e nell’immobilismo. Di proseguire la lotta non si parla più, l’obiettivo diventa quello di portare le persone a votare.

Lasciando qui da parte il referendum sulla cittadinanza, sacrosanto ma non collegato direttamente alla lotta per i diritti nei luoghi di lavoro, i quattro quesiti sul lavoro promossi dalla CGIL sono come minimo insufficienti. Anche se venissero approvati non si tornerebbe certo all’art. 18 cancellato da Renzi, né si andrebbero a estirpare le piaghe della precarietà e degli appalti. Sono una goccia nel mare, come dimostra un’analisi anche superficiale dei quesiti.

Il terreno referendario, poi, in generale è più vantaggioso per la classe dominante, molto più di uno scontro diretto in cui i lavoratori non sono solo una massa atomizzata che deve recarsi alle urne (per giunta con l’obbligo del quorum!), ma mettono in campo la propria forza organizzata con scioperi e manifestazioni.

Ma la questione più grave è che questa campagna referendaria di fatto annulla qualsiasi proposta di lotta.

Anzi: mentre il gruppo dirigente della CGIL si propone l’obiettivo ambizioso di fare formazione a 100mila delegati sindacali sui temi del referendum, quegli stessi delegati vengono mandati a difendere rinnovi contrattuali miseri, che non difendono né i salari, né i diritti, come avvenuto da ultimo nei contratti dei trasporti. Oppure, come accade nella sanità, vengono lasciati senza uno straccio di proposta di mobilitazione di fronte a un governo che nega aumenti salariali minimi e cerca l’accordo separato con la CISL. Per non parlare della lotta che sarebbe necessaria contro la politica economica del governo, a partire dall’aumento delle spese militari.

Una classe lavoratrice che vede continuamente peggiorare le proprie condizioni e che invece di una proposta di mobilitazione seria si sente proporre di aspettare le urne di primavera, ne trarrà la conclusione che, una volta di più, il sindacato non fa il suo dovere, per non dire di peggio.

Se nelle mani dei dirigenti sindacali la rivolta diventa una parola vuota, dobbiamo organizzarci perché venga invece impugnata seriamente, dal basso, dai lavoratori, se vogliamo davvero cambiare la nostra condizione!